L’Antico e il Nuovo Testamento parlano spesso di Gerico, la città distrutta al suono delle trombe dagli israeliti guidati da Giosuè, in cerca dell’agognata terra promessa.
Diverse campagne di scavi suggeriscono che le mura in mattoni crudi costruite nel 2.800 a.C. furono distrutte da un violento incendio nel 2.350 a.C.: la presenza di travi lignee inserite dai costruttori come stabilizzatori avrebbe favorito l’abbattimento della cinta muraria.
Se l’assedio degli israeliti fosse avvenuto nel XIII secolo a.C., come sostenuto da alcuni studiosi, il centro doveva già essere in completa rovina da centinaia d’anni.
La marna calcarea finemente sbriciolata rinvenuta tra le mura, scambiata inizialmente dagli archeologi per “la cenere accumulatasi a seguito della biblica distruzione di Giosuè” era invece “un materiale da costruzione, forse utilizzato per fabbricare l’intonaco bianco che rivestiva le mura stesse proteggendo i mattoni crudi delle mura, come mostrato da un tratto eccezionalmente conservato degli intonaci originali.” (Lorenzo Nigro, Ritorno a Gerico. Scavare tra archeologia e leggenda, Archeo 293 luglio 2009).
La città sulle rive del Giordano, a una trentina di chilometri da Gerusalemme, rivela insediamenti umani fin dagli strati corrispondenti al 18.000 a.C.
Questo vuol dire che a Gerico, in quel periodo, comincia a prender forma quella che ancor oggi è considerata la città più antica del mondo. Infatti tra il 10.000 a.C. e l’8.300 a.C., in pieno Neolitico, avviene un drastico cambiamento nelle abitudini dell’uomo che da nomade cacciatore si trasforma in sedentario agricoltore e costruisce case rotonde seminterrate in mattoni.
La città già allora è protetta da una cinta di mura con torrioni alti nove metri e da un fossato.
Nell’antica Ruha (questo il nome in antico cananaico) si scava ormai da più di cent’anni e le ricerche proseguono incessantemente. Dall’analisi dei diversi strati sappiamo che tra il VII e il IV millennio a.C. il sito fu periodicamente abbandonato ma c’è già un culto dei defunti, confermato dalle sepolture rinvenute sotto il pavimento delle abitazioni, con le teste che risultano rimosse dai cadaveri.
L’abbandono del 7.350 a.C. non rileva distruzioni violente e qualsiasi ipotesi si faccia, non potrà essere suffragata nemmeno da indizi. La città tornerà a fiorire duemila anni dopo.
Negli anni Trenta del secolo scorso l’archeologo John Garstang rinvenne tra l’altro due statuine di terracotta raffiguranti la Dea Madre.
Anche nel sito di Netiv Hagdud, classificato nel periodo denominato Sultaniano a cui appartiene anche Gerico, sono state rinvenute sepolture secondarie di gruppi di teste e figurine femminili stilizzate di Dea Madre.
Mureybat è un sito della Siria che si affaccia sulla riva orientale dell’Eufrate.Scavato dall’archeologo Jacques Cauvin, qui si studiano le primissime fasi del Neolitico, poiché la gente vi si stanziò dal XII all’VIII millennio a.C.
Si trattava della cultura natufiana (dal sito di Uadi el-Natuf a Israele, scoperto già negli anni Trenta del secolo scorso), attestata alla fine del Pleistocene e caratterizzata da insediamenti stabili di gente che non praticava ancora l’agricoltura.
Anche qui, come a Gerico, troviamo case rotonde con più ambienti che possono ricordare la forma dei templi maltesi.
Il rinvenimento di una statuetta in terracotta raffigurante una donna con fianchi, pancia e glutei ben evidenziati testimonia che il culto dedicato alla Dea Madre era antichissimo e radicato.
Le case a pianta rotonda costruite sotto il livello del terreno sono una prerogativa dei Natufiani.
In un altro sito netufiano in Israele, Ain Mallaha, l’archeologo Jean Perrot ha rinvenuto sepolture che presentano il distacco del cranio. Sono stati trovati anche manufatti di ossidiana provenienti dall’Anatolia, a testimonianza di rapporti commerciali attestati già a quell’epoca.
Il docente di Protostoria dell’Università di Roma Tor Vergata Mario Federico Rolfo (Appunti di Preistoria del Vicino Oriente, 2008) spiega che “…le analisi chimico-fisiche hanno permesso di stabilire sia le aree originarie di estrazione mineraria dell’ossidiana sia la sua dispersione in tutto il vicino Oriente. Le località di estrazione sono due gruppi: uno localizzabile in Cappadocia e l’altra tra il lago di Van, l’Armenia e Azerbaijan iranico. L’ossidiana raccolta nelle due aree ha caratteristiche chimico-fisiche differenti, pertanto si può ricostruire la dispersione in tutto il Vicino Oriente dei due gruppi di ossidiane…”.
Jarmo si trova invece nel nord dell’Iraq e qui nel 7.090 a.C. nacque una delle prime comunità agricole che prosperò fino al 4.950 a.C. (dodici gli strati rilevati).
Scoperto nel 1940, questo sito deve molto all’archeologo Robert John Braidwood che vi compì scavi sistematici per tre stagioni dal 1948 al 1955 e introdusse per la prima volta un metodo multidisciplinare per studiare la domesticazione di piante e animali.
Il villaggio di Jarmo raggiunse l’apice alla fine del VI millennio a.C. e sono attestati rapporti commerciali con la zona del lago Van in Turchia, distante duecento chilometri, poiché da lì proveniva l’ossidiana lavorata dagli artigiani, ma anche con il Golfo Persico, attestato dal rinvenimento di conchiglie ornamentali.
La produzione di ceramiche era incentrata anche su figure chiaramente riconoscibili nella Dea Madre.
Anche Catal Huyuk, in Anatolia (Turchia), era un centro abitato già nel Neolitico, a partire dal 9.000 a.C.
Più volte abbandonato e ricostruito, diventa un’importante insediamento nel 6.500 a.C. La datazione è quella desunta da decine di responsi al C14, ma correlando questi dati con l’accrescimento annuale degli alberi e i fattori climatici, si arriva a retrodatare l’abitato al 7.200 a.C.
Tra le due collinette in cui sorge l’insediamento scorreva un tempo il fiume Carsamba ed è possibile che la pianura alluvionale di Konya favorisse le attività agricole.
La comunità viveva in case di mattoni e fango, addossate tra loro e senza strade: la gente si spostava quindi attraverso i tetti, come appurato anche in altri siti archeologici dell’Anatolia.
Alcune costruzioni potrebbero essere dei santuari poiché decorate all’interno con pitture e rilievi rappresentanti le figure della Dea Madre e del toro. Qui sono state rinvenute anche statuette inneggianti alla Dea Madre, l’antico culto delle origini.
La stretta connessione tra il culto della Grande Dea e quello del toro è confermata da diversi rilievi in gesso che raffigurano la dea mentre dà alla luce una testa di toro o di montone.Poiché l’elemento maschile non appare mai in forma umana nelle decorazioni, è credibile che sia il toro a rappresentarlo.
L’uomo di Catal Huyuk, oltre ad addomesticare gli animali (tra cui il cane) si dedicava alla coltivazione di una decina di piante (ricordiamo il frumento, l’orzo, i piselli e il farro), alla lavorazione dell’ossidiana (che arrivava da Accigol, distante duecento chilometri) e non mancava di inebriarsi col vino e con la birra.
C’era poi un preciso rito funebre che avveniva con il seppellimento sotto il letto, non prima di aver esposto i cadaveri per la scarnificazione da parte degli avvoltoi (rituale che ancor oggi ricorre similmente in India e in Persia, suggerito anche per il santuario di Gobekli Tepe) e la conservazione a parte del cranio – che veniva in seguito decorato – come a Gerico e a Ain Mallaha in Israele.
La particolare inumazione dei crani doveva essere, soprattutto in Anatolia, pratica diffusissima dato che a Çayonu è stato addirittura scoperto un edificio particolare per il culto dei crani, in cui più di settanta teste erano conservate all’interno di piccole celle a forma di cassa; vicino a quest’edificio c’era anche una grande area rettangolare all’aperto che poteva servire per riti riconducibili alla pratica.
Anche Nevali Cori (a cui faremo altro cenno scrivendo di Asikli Hoyuk) ha restituito crani umani separati dallo scheletro all’interno di un edificio.
Mario Federico Rolfo chiarisce che “…la pratica di rimuovere i crani dai corpi dei morti si sviluppa nell’area siro-palestinese durante il PPNB [Neolitico preceramico B (7300-6650 a.C.)], fino a divenire una vera e propria caratteristica cultuale. Si associa al culto dei morti che vengono inumati, acefali, al di sotto del pavimento delle case; le teste asportate vengono ritrovate generalmente o all’interno delle abitazioni in nicchie apposite, oppure seppellite a parte in fosse apposite. Nel tempo la pratica si specializza e si complica arrivando alla produzione di crani umani sopramodellati in argilla allo scopo di riprodurre le fattezze del volto del defunto. Al posto degli occhi si ha l’applicazione di conchiglie marine, e al posto dei capelli l’utilizzo di cordame vegetale applicato con bitume, in alcuni casi si nota anche l’applicazione di pittura a evidenziare alcune caratteristiche fisiche, come i baffi. Ad Hebron e a Nahal Hemar sono state rinvenute invece maschere in pietra raffiguranti sommariamente i tratti di un volto umano.”
L’antropologa Denise Ferembach ha posto l’attenzione sulla particolarità che a Catal Huyuk il 54,2% della popolazione presentava la conformazione cranica degli euroafricani dolicocefali di ascendenza paleolitica. Inoltre è stato accertato che qui si soffriva di iperostosi, un’eccessiva proliferazione della matrice ossea derivante dall’aumento della densità scheletrica, mentre si era immuni dalla malaria: poiché la zanzara non vive sugli altopiani anatolici, i costruttori di Catal Huyuk dovevano provenire dalla costa meridionale dell’Anatolia.
Le abitazioni di Catal Huyuk risultano essere rettangolari più regolari e standardizzate rispetto a quelle palestinesi, sono case di tipo a griglia o con muretti di pietra paralleli a distanza ravvicinata.
L’archeologo James Mellaart, che nel novembre 1952 scoprì Catal Huyuk e diede inizio alla prima serie di scavi, è sempre stato convinto che qui fosse riposta la chiave delle origini della civiltà nel Vicino Oriente e riteneva evidente che questa civiltà neolitica “non fu creata nel corso di una notte, ma rappresenta il culmine di un processo che deve essere cominciato nel Paleolitico superiore (circa 35.000-10.000 a.C.), epoca in cui apparve l’uomo moderno… Numerosi elementi di Catal Huyuk mostrano collegamenti col lontano passato: l’antropologia del nucleo della popolazione, l’usanza di seppellire gli scheletri dopo averli colorati con ocra rossa, le pitture decorative dei santuari con l’uso di frammenti di stalattiti per il culto, a reminiscenza dei primitivi santuari realizzati nelle caverne.” (“Dove nacque la civiltà”, 1981).
A trecento chilometri c’è un insediamento del tardo neolitico (6.000 a.C.) che si chiama Hacilar, in cui dovremmo ritrovare le stesse caratteristiche di Catal Huyuk; invece lì non si dipingevano le pareti, il culto non era praticato in luoghi deputati e i morti non venivano seppelliti all’interno delle abitazioni.L’unica certezza rimaneva il culto della Dea Madre, testimoniato dalle numerose raffigurazioni d’argilla rinvenute.
Mellaart obiettivamente costatava che le conclusioni a cui era giunto erano soltanto “…provvisorie, perché le origini della civiltà neolitica sono ancora oscure… e noi brancoliamo ancora nel buio”.
Non sapeva ancora che vent’anni dopo il collega Klaus Schmidt avrebbe scoperto il più antico luogo sacro dell’Anatolia, ma per ironia della sorte le sue parole continuano a essere di estrema attualità.
Göbekli Tepe, un sito archeologico rinvenuto in Turchia ai confini con la Siria, è da far risalire all’inizio del Neolitico.
In questa località l’uomo si dannò l’anima per costruire quello che è considerato il più antico santuario megalitico (frequentato tra l’11.500 e l’8.000 a.C.) con pilastri in calcare del peso di dieci tonnellate l’uno posizionati a forma di T per un’altezza di tre metri. Una cinquantina di questi monoliti, quelli finora portati alla luce (le analisi geomagnetiche segnalano la presenza di centinaia di pietre simili ancora sepolte), sono decorati con incisioni in cui riconosciamo serpenti, tori, leoni cinghiali e scorpioni. Le raffigurazioni di questi animali fa pensare a un culto sciamanico simile a quello praticato in Mesopotamia.
È interessante notare che già all’epoca si disponeva di un’organizzazione sociale capace di erigere strutture monumentali, tanto da suggerire un decisivo cambiamento nelle abitudini del nostro antenato anche se non sono state rinvenute abitazioni, piante o animali domestici. Eppure negli strati corrispondenti al tempio megalitico si trovano manufatti in pietra, ossa di animali selvatici, semi di piante selvatiche e legno carbonizzato: indizi confortanti per asserire che vi fu un insediamento stabile.
Verso l’8000 a.C. questo importante luogo di culto venne abbandonato, non prima di aver seppellito tutto con cumuli di terra.
Il direttore di Archeo Andreas M. Steiner è ben conscio delle implicazioni che possono scaturire dalla scoperta del sito di Gobekli Tepe: “Se, come suggeriscono i monumenti di Gobekli Tepe, secoli prima dell’avvento della domesticazione di piante e animali esistevano gruppi di uomini capeggiati da leader carismatici, sacerdoti o stregoni, in grado di organizzare e gestire il potere, allora la nostra idea di come avvenne il passaggio dal Paleolitico al Neolitico deve cambiare radicalmente: l’agricoltura potrebbe essere nata non dalla necessità materiale di fronteggiare una minacciosa crisi alimentare, ma come epifenomeno di un bisogno diverso, quello di ottenere – grazie alla produzione e all’accumulo della nuova ricchezza – uno status sociale da esibire come segno di potere. Potremmo, insomma, trovarci di fronte al primato della politica sull’economia.” (“Archeo” 279, maggio 2008).