L’unica statuetta europea finora rinvenuta che mostri tratti “spaziali” tanto evidenti è un piccolo manufatto, a suo tempo denominato “astronauta di Kiev” dallo scrittore Peter Kolosimo.
Si tratta di un pregevole monile in argento attribuito alla cultura degli Sciti, una popolazione iranica di ceppo indoeuropeo forse proveniente dalla Persia, che Erodoto attesta nella Siberia meridionale fin dal VII secolo a.C.
Rinvenuto come corredo funebre in un kurgan (monumentale dimora ultraterrena riservata ai sovrani e alle classi dominanti) nella regione siberiana di Altai, cuore dell’Asia confinante con la Cina, l’astronauta fu poi trasferito a Kiev, al National Art Museum of Ukraine.
La statuetta rappresenta un umanoide che pare indossare un’aderente armatura e un elmo quasi da oplita che copre le fattezze del viso, con una sorta di aureola lungo i bordi, che può ricordare lo scafandro di un astronauta ma anche quello di un palombaro.
Le giunture (o cerniere) sui gomiti, la decorazione presente sulla parte centrale del corpo (che ricorda l’intreccio tipico derivante dal trattamento di un tessuto) e la lavorazione particolarmente accurata dell’area di aggancio dell’elmo e di quelle di mani e piedi (si distingue una specie di giuntura), inducono a pensare che l’artigiano abbia voluto riprodurre un soggetto reale. Probabilmente non un essere umano perché braccia e gambe sono sproporzionate con il resto del corpo: sempre che non ci si trovi di fronte a una stilizzazione estrema riferita solo agli arti.
Comeho già visto dimostrato analizzando altri oggetti fuori posto, la mancanza di notazioni sicure (gli Sciti non avevano una propria scrittura e quel che si conosce, lo dobbiamo alle cronache, certo non genuine, dei popoli con cui vennero in contatto) apre le porte a molte ipotesi, senza peraltro dimenticare che questa statuetta potrebbe essere la raffigurazione di un guerriero danzante con la sua maschera rituale, tipica degli sciamani e ispirata da visioni derivanti dall’uso di sostanze allucinogene.
Può destare stupore vedere una fascia avvolgente attorno alla vita e l’inquietante presenza di guanti. L’attenzione ricade inevitabilmente anche sulle mani e ci si accorge della rappresentazione di sei dita, con il pollice della mano sinistra ben visibile.
Tornando con i piedi per terra e concentrando la nostra attenzione sull’origine del nome della gente alla quale va attribuito il monile, potremo scoprire che Sciti in iranico significa “arcieri” e con queste mansioni erano, infatti, inglobati nell’esercito persiano.
Gli Sciti, che i Greci definivano barbari probabilmente per le frequenti incursioni subite, pur essendo organizzati come società guerriere emergevano quali abili artisti orafi, perlomeno fino all’assimilazione forzata con i Goti nel IV secolo d.C.
Il corredo funebre rinvenuto nei kurgan, fosse circolari del diametro di settanta metri sormontate da colline artificiali (tanto da apparire piramidi nella steppa), proporzionati al potere e alla grandezza dei reali, rappresenta un’inequivocabile testimonianza dell’altissimo livello raggiunto dagli Sciti nell’arte orafa, in una regione naturalmente ricca di preziosi minerali.
Reperti aurei di eccelsa fattura, così come li descrisse Erodoto, sono stati disseppelliti in scavi archeologici intrapresi nel secolo scorso, soprattutto a Ordzonikidze, lungo il corso del Dnepr (allo State Hermitage Museum di San Pietroburgo http://www.hermitagemuseum.org/ è possibile visionare una collezione di questi pregevoli manufatti, tra cui un magnifico specchio dorato, proveniente dal Kuban, con effigiati grifoni, sfingi e divinità alate).
Sepolture così grandiose ci riportano alla mente quella del leggendario Re Mida di Frigia, in quel di Gordio.
È interessante osservare che lo storico romano Pompeo Trogo definiva quella degli Sciti la più antica razza della Terra mentre la ricercatrice Tamara Talbot Rice, nel secolo passato, ricordava che alcuni dei racconti mitici più famosi nascono proprio in Scizia, considerata “La Terra del Sole Nascente” e “Mondo d’Oltremare”: qui Giasone e gli Argonauti erano alla ricerca del Vello d’oro, Ulisse terminava le sue fatiche e il demone Magog partiva per portare devastazione tra gli Ebrei.
Tornando all’astronauta, la posa a gambe divaricate potrebbe far pensare anche a un cavaliere, pur mancante del suo destriero: le ricerche archeologiche, d’altronde, attribuiscono al popolo scita l’invenzione della cavalleria pesante.
Questi cavalieri della steppa facevano risalire le proprie origini a Targitaus, figlio del re del cielo, e alla sua sposa, una dea serpentiforme (secondo la mitologia greca Targitaus fu generato da Zeus e una figlia di Boristene; altre fonti narrano dell’unione di Eracle con il mostro Echidna da cui nacque Scite).
Gli Sciti ebbero in dono dal loro dio un aratro d’oro, un giogo, un’ascia e una coppa, tutti simboli del potere: è straordinario costatare che la tribù dei Cherokee, all’altro capo del mondo, tramandano un’identica leggenda.
Targitaus sarebbe sepolto a Gerhos (località non ancora individuata dagli archeologi), stando alle parole pronunciate nel 508 a.C. circa dal re scita Idanthyrsus al cospetto dell’invasore Dario I di Persia: un monito per lasciar riposare i padri della patria, unico attaccamento di un popolo senza terra che voleva evitare un’altra battaglia.
Per dipanare il mistero dell’astronauta di Kiev non ci resta che andare alla ricerca di Gerhos, novella Atlantide.
Hai letto un estratto dal libro OOPArt. Gli oggetti “impossibili” del nostro passato (Cerchio della Luna, 2012)