WikiLeaks, la voce della coscienza

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WikiLeaks, l’organizzazione on line che riceve e divulga documenti secretati provenienti da tutto il mondo, protetti da doppia cifratura, è indubbiamente legata a uno dei suoi fondatori, l’attivista Julian Assange, recentemente scarcerato dopo anni di persecuzioni giudiziarie.

Fu proprio lui che, nel 2007, incentivò il rilascio sul database di decine di migliaia di documenti che misero in difficoltà molte amministrazioni, soprattutto quella americana, rinfocolando il sentimento antiamericano.

Tre anni dopo l’organizzazione fornì ad alcuni giornali (New York Times, Guardian e Der Spiegel) documenti segreti riferiti alla guerra in Afghanistan, che, dopo essere stati giudicati autentici dalle redazioni giornalistiche, furono pubblicati: quegli atti contenevano anche le tante nefandezze compiute dall’esercito e dai servizi segreti americani e britannici sui campi di battaglia dal 2004 al 2009, nonché la rivelazione che Pakistan e Iran sostenevano segretamente i talebani.

I documenti militari riservati furono forniti a più riprese da Chelsea Manning, già analista dell’intelligence dell’esercito.

Il rilascio di questi e altri documenti classificati anche ad altri organi di informazione (El Pais e Le Monde), contenenti le prove di abusi, torture e violenze commessi dalle parti in causa e riferiti anche ad eventi accaduti nel passato fin dal 1966, destarono nell’opinione pubblica mondiale un moto di disapprovazione e condanna soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, alimentando nuovamente il sentimento antiamericano.

Infatti, tra le informazioni raccolte c’erano pure valutazioni davvero “sopra le righe” espresse in migliaia di dispacci dagli ambasciatori statunitensi nei confronti di molti capi di governo, compresi quelli europei. Emergeva, poi, l’imbarazzante posizione del segretario di Stato Hillary Clinton, che aveva richiesto alla sua rete diplomatica informazioni su funzionari delle Nazioni Unite che francamente esulavano da ogni contesto politico. Fra l’altro, i burocrati americani di stanza nelle ambasciate avevano più volte esercitato indebite pressioni su governi di Stati esteri, fra cui Germania e Spagna, per proteggere agenti della CIA giudicati dalla giustizia locale responsabili di crimini.

Inoltre, si scoprì che l’Arabia Saudita, alleata degli USA nella lotta al terrorismo, in realtà svolgeva un ruolo doppiogiochista finanziando gruppi fondamentalisti islamici, compresa la rete di Al-Qaida.

La fuga ininterrotta di notizie mise in seria difficoltà l’amministrazione Obama, che tramite il Dipartimento di Stato cercò legalmente di impedire l’ulteriore divulgazione di notizie riservate, accusando WikiLeaks di essere entrata in possesso illegalmente di tale documentazione. Il Pentagono giudicò queste rivelazioni pubbliche un grave nocumento per la sicurezza nazionale, per la perdita di informazioni confidenziali e per le relazioni diplomatiche con gli alleati.

Le pressioni su ogni fronte degli USA condussero, infine, all’oscuramento del sito dell’organizzazione, che fu costretta a decentrare l’attività su altri server per sopravvivere.

Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, intanto, accusò Assange con una ventina di capi d’imputazione, costringendo il co-fondatore di WikiLeaks a rifugiarsi, per anni, all’interno di un paio d’ambasciate per difendersi dalle continue richieste di estradizione per spionaggio provenienti dagli USA.

Dopo aver trascorso cinque anni nel carcere inglese di massima sicurezza di Belmarsh, l’attivista australiano ha ottenuto la libertà su cauzione dall’Alta corte di Londra nel 2024, in seguito a un accordo di massima raggiunto con la giustizia americana, in cui egli si dichiara colpevole per aver diffuso informazioni riservate di difesa nazionale.

Fra i tanti Paesi in qualche modo interessati alle informazioni rivelate, solo Iran, Argentina e Venezuela hanno deplorato pubblicamente il comportamento degli Stati Uniti in politica estera, mentre tutti gli altri si sono astenuti da commenti sfavorevoli nei loro confronti o si sono schierati con l’alleato di sempre, mettendo in dubbio l’autenticità del materiale divulgato da WikiLeaks o facendo risaltare il pericolo che queste informazioni rivestono per la sicurezza nazionale.

Assange è stato aspramente criticato soprattutto per non aver esaminato e filtrato attentamente i «documenti segreti e riservati, rubati da qualche server governativo o da qualche grande agenzia», pubblicandoli «senza curarsi particolarmente dei nomi e dei dati in essi contenuti, della privacy, della pericolosità degli stessi». Alcuni osservatori pongono l’accento anche sul fatto che quasi tutte le notizie divulgate siano controproducenti solamente per gli Stati Uniti e per i suoi alleati occidentali.

L’attivista e la sua associazione avrebbero mostrato «un disprezzo crescente per le istituzioni liberali e una vicinanza sempre più preoccupante nei confronti del governo russo, che ha usato le campagne degli spioni per i suoi scopi propagandistici», come sembrano dimostrare le informazioni di nessun conto rilasciate alla vigilia delle elezioni nel 2016, che hanno comunque danneggiato il Partito democratico e la candidata Hillary Clinton.

Il New York Times, come riferisce Il Foglio del 2 settembre 2016, ha dedicato in quei giorni un report in cui racconta come «WikiLeaks sia ormai diventato un bastione dell’antiamericanismo a livello mondiale e certifica i rapporti ambigui con il governo di Vladimir Putin, mai sfiorato dalle rivelazioni di WikiLeaks e anzi sempre difeso dall’associazione. Tutto vero, tutto giusto. L’eroe, finalmente, torna il villano che è sempre stato anche agli occhi dei media liberal. Forse sarebbe stato meglio svegliarsi prima, senza aspettare l’attacco ai Dem».

Michael Pompeo, già direttore della CIA, nell’aprile 2017 ha dichiarato che «WikiLeaks è un servizio di intelligence ostile agli Stati Uniti, spesso incoraggiato dalla Russia. […] Non permetteremo più ai colleghi di Assange di usare la libertà di parola per schiacciarci con segreti rubati. Saremo un’agenzia molto più cattiva. E invia i nostri agenti più feroci nei luoghi più pericolosi per annientarli», ipotizzando palesemente un piano dell’intelligence americana per sopprimere Assange, se non fosse stato estradato negli Stati Uniti.

La stampa occidentale, dopo aver inizialmente osannato Assange come difensore della libera informazione per aver fornito incredibili scoop (la rivista Time lo nominò addirittura “Personalità dell’anno” nel 2010), ha fatto rapidamente marcia indietro allineandosi probabilmente ai desidera dei poteri forti, dedicandogli sempre meno spazio e contrapponendogli spesso il collega Alexei Navalny, indicato come eroe della trasparenza o del senso di responsabilità democratica, nonostante «il suo attivismo in un’organizzazione nazionalista, la sua partecipazione a manifestazioni xenofobe delle “marce russe”, i suoi commenti razzisti nei confronti dei migranti caucasici e dell’Asia centrale» che gli hanno fatto perdere infine «lo status di “prigioniero di coscienza” attribuito da Amnesty International».

Il giornalista Jack Dion nel 2019 ha sottolineato che il problema di Assange è «di essere australiano e non russo. Se fosse stato perseguito dal Cremlino […] i governi si contenderebbero l’onore di concedergli asilo. Il suo volto sarebbe apparso sulla facciata del municipio di Parigi e Anne Hidalgo avrebbe messo la Torre Eiffel a mezz’asta fino al giorno della sua liberazione».

Matteo Martini, in una lucida analisi rilasciata recentemente, sostiene che WikiLeaks abbia svolto «un ruolo cruciale nella fase storica post – 11 Settembre, rivelando al mondo i crimini di guerra sistematici compiuti dagli Stati Uniti per più di un decennio durante l’occupazione di Afghanistan e Iraq».

Ciò ha contribuito in modo sostanziale a ledere «l’immagine degli Stati Uniti nell’opinione pubblica mondiale soprattutto nei Paesi non appartenenti al blocco occidentale, in cui l’azione di gatekeeping delle grandi corporations di media occidentali aveva meno impatto» ed è stato determinante «nel forgiare un ripudio verso l’egemonia USA e il Washington consensus, proprio nei decenni in cui pareva sorgere un nuovo e stavolta definitivo secolo americano. È stata la perdita di una guerra o di una campagna militare per gli USA: la guerra dell’Informazione».

 

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Ascolta l’intervento radiofonico dell’autore il 19 gennaio 2025 nel programma Punto G di Giornale Radio condotto da Giuliano Guida Bardi (01:03:10).

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