Il nome che contraddistingue la civiltà degli Olmechi, cultura madre della Mesoamerica, fu coniato dalla parola nahuatl “Olman” (terra della gomma), ma questo è solo uno dei tanti nomi con cui è possibile chiamare gli abitanti della zona del Golfo.
Sarebbe forse più corretto usare il termine “Olmeca-uixtotin” che significa gente della gomma e dell’acqua salata, come suggerito da qualche studioso. Il termine con cui sono ancora oggi chiamati, originato dalla lingua nahuatl, fu comunque affibbiato loro dagli Aztechi per via della zona geografica ove erano insediati e in cui si estraeva il lattice dalla Castilla elastica, un albero della gomma, da cui si realizzavano le palle usate nei primi campi per il “gioco” sacro.
Si trattava di una specie di pallacanestro o pelota, praticato dagli indigeni in aree rettangolari a forma di doppia T, rinvenuti in quasi tutti i siti archeologici della Mesoamerica. La peculiarità del “gioco” chiamato Tlachtli (oggi ulama) consisteva nell’infilare una pesante palla, fabbricata col caucciù di una hevea selvatica, in un anello di pietra disposto sulla parte interna delle pareti presenti ai due lati, a un’altezza di otto metri.
Non si potevano usare mani e piedi ma solamente gomiti, fianchi o ginocchia; inoltre la palla non doveva mai toccare terra e se questo avveniva, era da considerarsi un errore. Ogni formazione era composta da sette giocatori e il numero non è casuale perché rappresenta sia la dea Chicomecòatl (“sette serpenti”) sia la pianta del mais.
La Dea “sette serpenti”, che ha incredibili connessioni con il culto di Iside e con la stella a sette punte conosciuta anche come stella di Venere, è pregna di simbolismo legato a quel numero; in questo caso i sette serpenti potrebbero essere gli altrettanti pianeti allora conosciuti e osservati nella parte alta dello Zodiaco tra eclittica ed equatore celeste, che Giorgio De Santillana chimava ‘terre emerse’: Venere rappresentava quindi la ‘porta per i sette pianeti’.
Il capo della squadra che perdeva (o che vinceva, dipende dai punti di vista degli studiosi) era decapitato. Probabilmente il gioco, che voleva in qualche modo raffigurare l’itinerario del Sole (così è identificata la palla nei codici nahua e d’altro canto i serpenti piumati attorcigliati scolpiti sugli anelli di pietra possono rappresentare il cielo), aveva una sua funzione religiosa nella quale, secondo gli indigeni, si poteva interpretare qual era il pensiero esternato dagli dei. Si può ipotizzare che le partite si disputassero in concomitanza di fenomeni celesti.
L’architetto e archeologo Federico Arborio Mella esprimeva tuttavia riserve sulle presunte regole del gioco: «Permane anche il mistero dei due anelli in pietra attraverso i quali, secondo quel che si legge, doveva passare la palla. Sfidiamo chiunque ad infilarvela usando solo ‘le anche e le ginocchia’; questi anelli poi sono situati ai lati del campo e non, come sarebbe logico, alle due estremità, e ad altezza diversa da stadio a stadio. Per cui, o erano semplici simboli di qualche dio o del Sole – come dice il Duran [Diego Duran] – o tutt’al più potevano esser adibiti a tiri da fermo per battere un fallo o convalidare una meta. È quindi più plausibile che si trattasse di un piacevole e funambolico gioco ‘alla brasiliana’ che comportava diversi tipi di partite da luogo a luogo, dato che i campi, pur nella generalizzata forma a I, sono assai diversi sia nella struttura sia nelle dimensioni».