Alla fine del secondo conflitto mondiale, il democristiano Alcide De Gasperi guidò i primi governi, la cui fiducia, dopo il referendum del 1946 che abrogò la monarchia, era votata dall’Assemblea Costituente.
Come Primo ministro, egli si recò negli Stati Uniti all’inizio di gennaio del 1947, invitato a partecipare al Forum economico del World Affairs Council di Cleveland intitolato «Che cosa si aspetta il mondo dagli Stati Uniti?».
Quel viaggio, che durò in tutto dieci giorni, fu organizzato da Henry Luce, il potente editore di Time, Life e Fortune, e dalla moglie Clare Boothe Luce, che dal 1953 al 1956 ricoprirà l’incarico di ambasciatore in Italia.
In realtà, il politico italiano intendeva ottenere migliori condizioni rispetto agli umilianti trattati di pace firmati a Parigi e perorare l’assistenza economica immediata, di cui il Paese aveva estremamente bisogno per la ricostruzione, anche in considerazione che l’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), l’organizzazione che assisteva le nazioni danneggiate dalla Seconda Guerra Mondiale, avrebbe interrotto da lì a poco gli aiuti economici fino a quel momento forniti, circa 590 milioni di dollari, dei quali oltre i due terzi erano di provenienza statunitense.
L’UNRRA era gestita direttamente dall’ONU, che però che non possedeva fondi autonomi e da cui gli Stati Uniti volevano sganciarsi per gestire e massimizzare la maggior parte degli aiuti economici da loro forniti, come ebbe a dichiarare il vicesegretario di Stato Dean Acheson.
Il Corriere d’Informazione del 2-3 gennaio 1947 scrisse che «Noi speriamo da questo viaggio promosso dalla generosità degli Stati Uniti una ripresa dei rapporti culturali e commerciali tra i due Paesi. […] aspettiamo anzitutto il pane per i nostri figli, il carbone per le nostre caldaie, le materie prime per rifare le nostre case, ferrovie, ospedali, fabbriche, scuole, chiese: materie prime della nostra ricostruzione non solo di mura, ma anche di spiriti: che ormai questo aereo che trasporta in poche ore il Presidente oltre oceano, simboleggia l’avvicinamento tra i due continenti, anzi, la continuità tra di essi».
Insomma, si trattava delle stesse suppliche più volte avanzate dal nostro ambasciatore oltreoceano Alberto Tarchiani al presidente americano, che non mancò di trasmettere lettere strappalacrime a Truman fin dal luglio 1945.
Alla fine De Gasperi accettò di buon grado un assegno dell’importo di cinquanta milioni di dollari «a copertura dei servizi, dei rifornimenti e delle prestazioni ottenute dalle forze americane in Italia», e un prestito quasi simbolico di cento milioni di dollari concesso dalla Export-Import Bank of Washington (Eximbank). Il prestito fu caldeggiato dal Dipartimento di Stato, poiché la banca non era nemmeno del tutto convinta della bontà dell’operazione.
Nella sostanza, poi, non si trattava neppure di un vero e proprio prestito, ma di ‘crediti industriali’: l’Italia poteva accedere al denaro accantonato virtualmente dalla banca, come fosse un’apertura di credito, solo per acquisti da farsi negli Stati Uniti, da parte di singoli soggetti economici, attraverso l’IMI, ma la concessione dei crediti dipendeva dalle condizioni dell’Italia e dalla sua stabilità.
Quei cento milioni di dollari, ancor oggi tanto enfatizzati, non furono nemmeno utilizzati per intero. Senza dimenticare che Tarchiani, rifacendosi a un analogo prestito concesso dagli Stati Uniti alla Francia nel 1946, aveva inizialmente richiesto per l’Italia quasi un milione di dollari, dimentico di ogni considerazione politica emersa dopo la fine della guerra.
Ma l’Italia aveva bisogno di ben altro per sopravvivere. De Gasperi, in un discorso a Milano qualche giorno prima di partire, aveva dichiarato, quasi fosse stata un’invocazione agli Stati Uniti, che la nazione necessitava urgentemente di almeno un miliardo di dollari l’anno per sopravvivere. In quella circostanza, egli aveva fatto, neanche tanto velatamente, un primo voto di sottomissione: «[…] l’Italia dimostrerà con la sua disciplina, con la sua solidarietà, con la ripresa delle sue forze morali ed economiche, di essere pronta e degna di prendere il suo posto fra le nazioni libere e civili».
La strategia degasperiana di prostrarsi alla potenza d’oltreoceano, fra l’altro l’unica strada percorribile all’epoca, avrebbe però segnato per sempre la politica interna ed estera dell’Italia.
Per parte della politica italiana, quel viaggio sancì la scelta di campo atlantica della giovane repubblica, ma per le formazioni della sinistra fu visto come l’inizio dell’ingerenza statunitense nelle principali questioni nazionali italiane.
Il fatto che nella compagine di governo ci fossero anche ministri socialisti e comunisti decisamente contrari alla linea perseguita da De Gasperi, non rappresentava l’unico problema per il buon esito della missione. Infatti, proprio in quei giorni, si era insediato improvvisamente un nuovo Segretario di Stato, il generale George Catlett Marshall, e la maggioranza repubblicana del Congresso si era detta contraria a fornire altri aiuti economici all’Italia e ad altri Paesi.
Il presidente del Senato, il repubblicano Arthur H. Vandenberg, uomo di riferimento dell’opposizione, dubitava, infatti, che il governo De Gasperi fosse stato in grado di rimanere al potere, e non intendeva sperperare le risorse americane «aiutando tendenze che siano contrarie ai nostri principi e ai nostri fini di democrazia interna e internazionale». Anche il senatore repubblicano Robert A. Taft, presidente del Joint Economic Committee, aveva esternato le medesime preoccupazioni allo stesso De Gasperi, in un incontro avvenuto l’8 gennaio 1947.
Quel viaggio negli Stati Uniti di De Gasperi, secondo Palmiro Togliatti, fu all’origine della crisi dell’esecutivo, con le dimissioni da ministro degli Esteri del socialista Pietro Nenni e la sostituzione del comunista Mauro Scoccimarro al ministero delle Finanze. L’evidente ridimensionamento di comunisti e socialisti nella compagine di governo, per il leader comunista, sarebbe stata «suggerita dall’esterno, cioè da quei circoli politici americani che si sono affollati intorno a De Gasperi».
Togliatti aveva ragione: pur di ottenere il consenso e la fiducia degli Stati Uniti, De Gasperi aveva dovuto piegarsi all’imposizione tassativa di escludere dal governo comunisti e socialisti. Il diktat fu ribadito con vigore anche dall’ambasciatore in Italia James Clement Dunn, un ambiguo diplomatico che, durante la Seconda Guerra Mondiale, impiegato nella Divisione degli affari politici del Dipartimento di Stato, si era prodigato affinché le informazioni sull’Olocausto non raggiungessero gli Stati Uniti, impedendo, di fatto, il salvataggio di migliaia di ebrei perseguitati.
Dopo aver firmato il Trattato di pace il 10 febbraio 1947, il 23 marzo l’Italia fu il primo tra i Paesi vinti a essere integrato nelle istituzioni internazionali, con l’ammissione alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale.
Nel giugno 1947, comunisti e socialisti furono estromessi dal governo, da quel momento e fino al 1964 egemonizzato dai democristiani con il sostegno di socialdemocratici, liberali e repubblicani.
Tre mesi prima, infatti, il presidente americano aveva introdotto la celebre “Dottrina Truman”, rompendo le relazioni già problematiche con la Russia. Le sorti dell’Italia, a quel punto, furono dettate dall’intransigente politica americana. Da lì, come raccontava Mario Nanni, già cronista parlamentare dell’Ansa, iniziarono «le mosse per la resa dei conti elettorale del 1948, da cui il Fronte popolare uscì con le ossa rotte, e il Psi, per la scelta frontista di Nenni, perse il primato nella sinistra italiana e mai più si riprese dalla condizione di “seconda forza” rispetto al Pci».
Le conseguenze per la politica interna italiana furono allora la rottura definitiva fra PCI e PSI, con i socialisti che si avvicinarono sempre più alla Democrazia Cristiana, tanto da partecipare in seguito anche alla maggioranza di governo.
Dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948, L’Unità, organo ufficiale del PCI, scrisse senza tanti giri di parole che il potere in America era nelle mani di una sessantina di famiglie, tra cui Morgan, Ford, Dupont, Rockefeller e Mellon, che incrementavano i loro profitti ogni volta che gli Stati Uniti entravano in guerra. Otto grandi gruppi economici legati fra loro, scriveva Riccardo Rubens, controllavano l’economia degli Stati Uniti. E giù a sciorinare numeri e statistiche degli ingenti profitti derivanti dall’ultimo conflitto mondiale. Si trattava, neanche a dirlo, delle stesse critiche avanzate nel decennio precedente dagli intellettuali fascisti.
Il successo della DC alle elezioni, anche grazie al sostegno esplicito del Vaticano, fu travolgente, nonostante il PCI, alleato con il PSI nel Fronte Popolare, fosse all’epoca il partito comunista più forte dell’Europa occidentale. D’altronde, il segretario di Stato Marshall aveva ribadito a De Gasperi che una vittoria del Fronte Popolare avrebbe comportato la mancata corresponsione all’Italia degli aiuti economici. Nasceva così quella che Don Sturzo apostrofò come ‘democrazia imperfetta’, poiché priva di una vera e propria alternativa di governo.
Quella vittoria fu propiziata, soprattutto, da decine di milioni di dollari corrisposti dalla CIA a esponenti politici della Democrazia cristiana, di altri partiti affiliati e di organizzazioni collegate, per finanziare la campagna elettorale e impedire una possibile vittoria del Partito Comunista Italiano.
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