I primi vagiti dell’antiamericanismo nel mondo si fanno coincidere, normalmente, con la seconda presidenza del democratico Grover Cleveland (1893), quando fu data un’interpretazione estensiva alla Dottrina Monroe.
In realtà, a parte una disputa di confine della Guyana britannica tra la Gran Bretagna e il Venezuela, che si risolse anni dopo con un arbitrato internazionale, Cleveland, già contrario alla politica espansionistica del suo Paese, si oppose fermamente all’annessione delle Hawaii e, nel corso di quel mandato, il Congresso degli Stati Uniti autorizzò solo lo Utah a unirsi all’Unione. È pur vero che, verso la fine della sua presidenza, egli sostenne una politica estera più aggressiva, introducendo il divieto di nuove colonie europee e ampliando l’interesse nazionale degli Stati Uniti a qualunque faccenda concreta del continente americano.
Fu invece con la Guerra Ispano-Americana, combattuta negli ultimi anni di quel secolo, che gli USA iniziarono a conquistare, stavolta con la forza e l’inganno, altri territori: Cuba, le Filippine, Porto Rico e Guan. Fu il momento in cui si videro all’opera, per la prima volta, i Marines, che sbarcarono a Cuba.
Cavalcando l’idea utopistica di esportare libertà e democrazia al di fuori dei suoi confini, l’Unione conquistò quei possedimenti, percorrendo per ultima la strada già intrapresa dalle altre potenze coloniali. Le isole conquistate, infatti, furono assoggettate come territori coloniali, in cui con la forza e la violenza, mascherate dal processo d’integrazione e civilizzazione, s’imposero leggi e usanze che annientarono la volontà delle popolazioni indigene, come già accaduto con i nativi americani.
La causa scatenante della guerra con la Spagna, un conflitto che segna immancabilmente l’inizio dell’imperialismo americano, si deve all’affondamento, nel porto dell’Avana, della nave da guerra U.S.S. Maine, lì inviata nel gennaio 1898 per tutelare gli interessi commerciali americani sull’isola e, apparentemente, per tutelare i suoi cittadini minacciati dagli scontri fra ribelli e guarnigioni spagnole.
La tragedia del 15 febbraio 1898, in cui persero la vita duecentosessanta marinai statunitensi, è ancora avvolta nel mistero. Si sentenziò all’epoca sui giornali americani, quasi tutti in mano ai magnati William Randolph Hearst e Joseph Pulitzer, che l’esplosione a bordo dell’incrociatore corazzato, determinante per la sua immersione, fosse stata provocata da un ordigno spagnolo. La stampa americana, d’altronde, con le sue cronache scandalistiche e sensazionaliste, raccontava da qualche tempo, ingigantendole o inventandole di sana pianta, delle atrocità compiute dagli spagnoli sulla popolazione indigena cubana, poiché ciò portava i giornali a raggiungere tirature altissime.
Come dimostra una monografia accademica pubblicata nel 1976 dall’ammiraglio Hyman George Rickover, non esiste alcuna prova convincente che ci sia stata un’esplosione esterna che abbia dato inizio alla distruzione del Maine. Rickover conclude che l’origine dell’esplosione del Maine, sia da attribuire a un processo di autocombustione del carbone bituminoso utilizzato come combustibile, che innescò gli arsenali dislocati in punti diversi della nave.
Per dare una parvenza accettabile dell’intervento americano, la risoluzione congiunta del Congresso datata 20 aprile 1898, conteneva l’emendamento Teller (dal nome del senatore che lo propose), che così sanciva: «Gli Stati Uniti negano con questo strumento ogni disposizione o intenzione di esercitare sovranità, giurisdizione o controllo sulla detta isola, fuorché per il raggiungimento della sua pacificazione e proclamano la loro determinazione di lasciare il governo e il controllo dell’isola al suo popolo a pacificazione avvenuta». Quell’emendamento, approvato a larga maggioranza dalla Camera dei rappresentanti e con qualche difficoltà dal Senato, prescriveva, in buona sostanza, che terminato l’intervento militare, gli Stati Uniti avrebbero dovuto lasciare l’isola al suo destino.
Anche il discorso che il presidente, qualche giorno prima, aveva indirizzato al Congresso per richiedere l’autorizzazione a dichiarare guerra alla Spagna, conteneva formule stereotipate che ritroveremo negli anni a seguire, ogni qualvolta gli Stati Uniti parteciperanno a un conflitto.
Una guerra di breve durata – la “splendida piccola guerra” come la definì il segretario di Stato John Hay -, che durò appena qualche mese. La pace di Parigi del 10 dicembre 1898, permise agli Stati Uniti di guadagnare il protettorato su Cuba e acquisire dalla Spagna, corrispondendole la somma di venti milioni di dollari, Porto Rico e Guam, con facoltà di mantenere l’insediamento a Manila nelle Filippine, in Estremo Oriente.
Porto Rico divenne “Stato libero” associato agli USA, ma non incorporato, con un governatore nominato dal presidente americano. Le forze indipendentiste delle Filippine furono ridotte all’impotenza nel 1902, e quel territorio ‘incorporato’ negli Stati Uniti. Fu nominato un governatore americano e un contingente di truppe federali rimase a presidiare le innumerevoli isole dell’arcipelago.
Il Senato degli Stati Uniti tergiversò parecchio prima di ratificare il trattato di Parigi, poiché l’annessione dei territori produceva anche una questione relativa al diritto di cittadinanza americana da accordare o meno alle popolazioni residenti; senza dimenticare la problematica dell’eventuale applicazione delle tariffe doganali sui prodotti importati da questi paesi.
Alla fine della guerra, le truppe statunitensi occuparono Cuba fino al 1902, ma non ci fu nessuna annessione agli Stati Uniti. Tuttavia, con l’emendamento Platt del 1901, che andava a sostituire il precedente, si stabilirono le condizioni necessarie per il ritiro del contingente d’occupazione. Le nuove disposizioni, integrate anche nella costituzione dell’assemblea costituente isolana, prescrivevano restrizioni alla libertà finanziaria del governo di Cuba, riservandosi la facoltà di intervenire negli affari interni dell’isola. Allo stesso tempo, si decretava la creazione di una base navale nella Baia di Guantánamo e la possibilità di disporre di depositi di combustibile. Stante i continui subbugli degli isolani, il contingente americano rimase lì per altri trent’anni…
Gli Stati Uniti, nel 1898, avevano annesso anche le Isole Hawaii, da quel momento considerate ‘territorio’ soggetto alla giurisdizione e sovranità dell’Unione, poiché vi operavano da qualche tempo influenti possidenti statunitensi. Sull’isola, che diventerà Stato federato solo nel 1959, si erano originati, infatti, alcuni colpi di stato e, per evitare le ingerenze di altre potenze straniere, gli USA la occuparono militarmente. Il potere sottratto agli indigeni fu affidato a un presidente fantoccio, che già curava gli interessi americani nell’arcipelago.
Nacquero così i primi avamposti strategici che permisero agli Stati Uniti, innanzitutto, di aprire nuove vie commerciali per l’America Latina e l’Asia, ma anche di imporsi finalmente come potenza militare sul mare al pari di Gran Bretagna e Francia.
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