La profanazione della tomba di Juan Domingo Perón

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L’ultimo rifugio delle SS (Panda Edizioni, 2022)

Il 29 giugno 1987, nel cimitero della Chacarita a Buenos Aires, la tomba del generale Juan Domingo Perón, morto nel 1974, fu profanata: oltre al furto della sciabola e altri cimeli, al corpo del presidente furono addirittura amputate le mani con una sega elettrica; fu avanzata la richiesta di un riscatto di otto milioni di dollari (che per la cronaca non fu mai pagato) per la loro restituzione.

Come rilevano i giornalisti de La Nación, secondo il rapporto forense «la mano destra è stata tagliata all’altezza del polso e l’altra è stata tagliata sopra quell’articolazione, dove l’osso è più morbido. La presenza di segatura da cadavere che non aveva impregnato la gonna della divisa del generale indicava che i tagli erano stati recenti, non più di una settimana prima della scoperta. Gli esperti hanno determinato che le mani erano state tagliate con una sega a becco fine simile alla sega tipo Gigli, uno strumento chirurgico costituito da una lama molto sottile con denti in tre direzioni».

Stefano Ciavatta ha sottolineato che le impronte digitali del presidente erano «indispensabili – secondo una intervista rilasciata da un ex funzionario di banca al Wall Street Journal nel 1995 – per essere riconosciute dai sensori di una cassaforte particolare, quella di Perón, mai ritrovata».

Ma c’è da dire che nei primi anni Cinquanta, con una situazione economica in forte ristagno, Perón fu costretto per la prima volta ad accettare un prestito dagli Stati Uniti, compromettendo per sempre l’indipendenza del suo paese.

Fu così che la Eximbank (Bank of Exports and Imports), un’agenzia bancaria controllata direttamente dal governo, il 10 marzo 1955 autorizzò un credito per sessanta milioni di dollari, destinato all’acciaieria di San Nicolás, per l’acquisto di attrezzature, impianti e servizi dagli Stati Uniti.

Perón, che il 25 aprile 1955 sottoscrisse anche un contratto con Standard Oil of California per concedere lo sfruttamento di giacimenti petroliferi nella provincia di Santa Cruz (poi ricusato dal nuovo governo), aveva esclamato qualche tempo prima che si sarebbe tagliato le mani piuttosto che indebitare la nazione.

Per alcuni questa rimane la spiegazione più logica alla particolare profanazione del corpo di Perón. Senza dimenticare che il presidente, per salutare i descamisados, alzava sempre entrambe le mani: l’amputazione degli arti potrebbe quindi rientrare in un processo di decontestualizzazione, operato da forze antiperoniste.

Le indagini sulla profanazione del sepolcro di Perón furono condotte dal magistrato Jaime Far Suau, che morì il 25 novembre 1988 in un incidente automobilistico, le cui dinamiche non sono mai state chiarite del tutto. Quel giorno il magistrato era con la compagna Susana Guaita e il figlio di lei, Maximiliano. Fu proprio lui, che all’epoca aveva quattro anni, l’unico sopravvissuto, a ricordare di aver sentito un’esplosione prima del ribaltamento dell’autovettura: «Ho sentito un’esplosione. Non so come spiegarlo. Come se uno scaldabagno fosse esploso in casa tua». Nonostante gli indizi facessero ritenere che le ruote dell’auto fossero state modificate in modo che potessero scoppiare, l’inchiesta fu archiviata come un semplice incidente automobilistico, nonostante il giudice fosse stato già minacciato di morte e vivesse quasi sotto scorta.

Secondo i giornalisti Damian Nabot e David D. Cox, il giudice Suau aveva sospettato che le impronte digitali di Perón, o perlomeno l’anello che portava al dito (che forse recava inciso un particolare codice bancario), fossero servite alla loggia massonica ‘Propaganda due’ (P2) di Licio Gelli per accedere ai conti cifrati svizzeri in cui era conservato il denaro pagato a suo tempo dai nazisti a Perón ed Evita, per la protezione e il rilascio dei documenti validi per l’espatrio.

In fondo, anche la Commissione parlamentare d’inchiesta della Camera dei Deputati del Senato della Repubblica, scrisse nel 1984, nero su bianco, che le disponibilità di Licio Gelli «deriverebbero dall’amministrazione del patrimonio del defunto presidente argentino Perón».

In un breve articolo apparso su La Repubblica nel 1997, l’estensore scriveva che «un funzionario di banca argentino, Juan Carlos Iglesias raccontò che Perón aveva nascosto un tesoro in una cassaforte speciale, che riconosce la mano: un fascio di luce ne misura le dimensioni, se corrispondono la apre, altrimenti no. I ladri avrebbero trovato la cassaforte, ma avevano bisogno delle mani per aprirla. La rivelazione sarebbe stata fatta al funzionario dal giudice Suau. Ma non si è mai trovata alcuna conferma».

In realtà Iglesias non è mai stato un funzionario di banca, bensì un avvocato che collaborò attivamente con il giudice Suau, nonché l’autore con il giornalista Claudio R. Negrete del libro La profanación: El robo de las manos de Perón. El secreto mejor guardado de la Argentina, pubblicato in spagnolo nel 2017.

Poco più di due mesi dopo la morte di Suau, il 13 febbraio 1989 perse la vita anche il capo della polizia federale Juan Ángel Pirker, che stava indagando sul caso su richiesta del giudice: fu trovato morto nel suo ufficio, apparentemente a causa di un attacco d’asma.

Uno dei detective che si interessò all’indagine, il commissario Carlos Zunino, era rimasto miracolosamente illeso nel corso di un’irruzione avvenuta nella sua abitazione il 14 agosto 1988.

Invece Luis Paulino Lavagna, il custode del cimitero di Chacarita, dopo essere stato picchiato selvaggiamente, fu rinvenuto morto vicino alla tomba di Perón.

Un’altra probabile vittima fu María del Carmen Melo, una donna che portava sempre fiori sulla tomba di Perón: morì per un’emorragia cerebrale causata da un pestaggio, dopo aver cercato di parlare con uno degli investigatori per fornire la descrizione di una persona sospetta che aveva notato vicino al sepolcro del presidente.

Dopo la morte di Jaime Far Suau, il fascicolo fu archiviato, ma nell’agosto 1994 le indagini sulla profanazione della tomba del presidente furono riaperte, poiché fu rinvenuto il duplicato del mazzo con le dodici chiavi in grado di aprire le quattro serrature del caveau sepolcrale di Perón:  si trovava nel seminterrato della questura 29, l’ufficio di polizia che ha competenza anche sul cimitero di Chacarita.

Il giudice Alberto Baños, incaricato dell’inchiesta, rimase però vittima di un clamoroso furto in casa: qualcuno pensò bene di rubare tutto il materiale degli ultimi nove anni di indagine, che il magistrato stava riordinando per avanzare una richiesta al governo che ordinasse la revoca del segreto delle agenzie di intelligence dello Stato, al fine di fornire tutte le informazioni di cui disponevano sul caso.

Un furto del tutto anomalo, visto che i malviventi presero solamente una valigetta contenente il fascicolo giudiziario, personal computer, cellulare e agenda elettronica di Baños. Una vera e propia operazione di intelligence militare, come la definì il giudice stesso.

Gabriel Sued scrive su La Nación che «L’episodio è circondato da altre circostanze misteriose. Secondo quanto riferito dalla società di allarme Prosegur, da quando sono entrati in casa, gli intrusi hanno impiegato solo quattro secondi per disattivare i sensori di sicurezza ed entrare nella stanza della scrivania, dove si trovavano gli oggetti rubati. Lo stesso giorno dei fatti, un cognato del giudice, che lo aveva accompagnato a controllare la casa dopo il furto, ricevette diverse telefonate in cui una “voce cavernosa” gli chiese di un certo “Justinio Valentino”. Secondo Baños, gli analisti dell’intelligence gli dissero che il nome era un chiaro riferimento a chi “rende giustizia” e chi “fa il coraggioso”».

Comunque sia, nel 1996 l’inchiesta aveva fatto emergere sufficienti prove indiziarie per determinare che all’origine del trafugamento delle mani del presidente ci fosse stato proprio l’anello che conteneva la chiave per aprire una presunta cassaforte in Svizzera, «un’operazione di controspionaggio presumibilmente guidata da un servizio collegato alle forze armate o da settori militari installati nel SIDE al crepuscolo dell’ultima dittatura». Tuttavia, come riferiscono ancora i giornalisti Gustavo Carabajal e Ricardo Larrondo, il governo della Confederazione Svizzera, debitamente interpellato, «ha inviato un rapporto dettagliato in cui è stato indicato che non c’era alcun conto a nome di Perón e che non c’erano meccanismi di lettura delle impronte digitali per aprire le casseforti».

Nel 2014 l’avvocato di María Estela Martínez de Perón, Atilio Neira, ha rilasciato alcune dichiarazioni al giornalista Gustavo Sylvestre, rivelando che i servizi di intelligence degli Stati Uniti disporrebbero di informazioni riservate in grado di far luce sulla profanazione del corpo del generale Juan Domingo Perón. Il legale ha inoltre confermato l’esistenza di un elenco di nomi dei possibili autori, che «sarebbero appartenuti ai servizi segreti militari argentini».

Le informazioni possedute dalla CIA, come sostiene il giornalista David Cox, non possono però essere ancora rivelate, poiché tuttora classificate. Anche una richiesta di desecretazione inoltrata al Ministero degli Esteri da Baños, il magistrato che, dopo tanti anni, tiene ancora in pieni l’indagine, non ha sortito per il momento alcun effetto.

Le mani amputate di Perón, così come l’asportazione della terza falange del dito medio della moglie Eva Duarte, la celebre “Evita”, rimarranno forse per sempre un mistero, e così come sono riempiranno le pagine di storia, anche di quella che leggeranno le generazioni a venire.

Hai letto un estratto dal libro L’ultimo rifugio delle SS (Panda Edizioni, 2022)

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