Dogū e Shakoki dogū della cultura Jōmon

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Le statuette di terracotta denominate Dogū risalgono al II millennio a.C., l’ultimo e tardo periodo Jōmon, la cultura madre del Giappone, le cui prime fasi sono comunque attestate ben prima del 10000 a.C.

Si ritiene che queste figurine di ridotte dimensioni siano state utilizzate durante pratiche sciamaniche. In genere richiamano il culto dea madre e della fertilità.

I Dogū erano ciondoli di piccole dimensioni, non più di trentacinque centimetri, che presentano tratti antropomorfi e sono mancanti sovente di mani e piedi, per cui si ritiene fossero indossate.

Il loro uso è riconducibile verosimilmente a pratiche rituali, forse anche per racchiudere e contenere forze malefiche.

Insomma, una sorta di amuleti su cui trasferire le malattie e le calamità degli individui e, probabilmente, lo stesso rischio di morte legato al parto.

Queste statuette sono state ritrovate anche nei tumuli di conchiglie, buttate via, gettate con i resti del cibo, e ciò sembra escludere che fossero oggetti di culto religioso.

Quelle denominate Shakoki dogū sono invece attestate al periodo successivo della civiltà  Jōmon (1.000-400 a.C.), l’ultimo prima dell’arrivo dei Yayoi dalla Cina o dalla Corea, che introdussero in Giappone la coltivazione del riso.

Provenienti da scavi archeologici documentati, i Shakoki dogū sono quelle che richiamano maggiormente possibili scafandri di visitatori alieni nel passato dell’umanità, per via soprattutto di enormi occhiali (sporgenze ovali con fessure orizzontali al centro oppure una specie di finestrelle rettangolari) che avrebbero potuto proteggere la vista dalla luce solare, similmente a quelli in uso agli Inuit, ma che vengono in questo caso interpretati come parte integrante di un casco a visiera sagomata.

La presenza di qualcosa che ricorda un filtro per la respirazione in corrispondenza della bocca e un terminale che unisce il casco alla possibile tuta, rendono queste statuette del tutto enigmatiche.

Tralascio volutamente di raccontare per intero la faccenda della fantomatica lettera degli anni Sessanta del secolo scorso, che la NASA avrebbe inviato in risposta a uno sconosciuto scienziato di nome Kurt Von Zeissig (una storiella che purtroppo ancora circola in rete), propinata a suo tempo anche da Peter Kolosimo,  che non faceva altro che riportare fedelmente il racconto dello scrittore di fantascienza Alexander Petrovitch. Fra l’altro, in un’intervista rilasciata a Pablo Villarubia Mauso nel 2002 prima di morire, Alexander Kazantsev confermò di essere stato lui a scrivere alla NASA per chiedere un parere su alcune fotografie che ritraevano statuine dogū, dopo che aveva redatto un articolo sull’argomento, pubblicato poco prima su una non meglio specificata rivista popolare giapponese.

Antonio Moscatello, laureato in Lingue e letterature straniere moderne con un piano di studi incentrato sul Giappone all’Orientale di Napoli, spiega come andarono presumibilmente le cose: «Difficile dire da dove sia partita la diceria. Uno dei principali sospettati è George Hunt Williamson, alias Michael d’Obrenovic, un sensitivo che affermava di essere venuto in contatto con gli alieni e aveva rapporti col culto ufologico di George Adamski. Nell’estate del 1961 Williamson si recò in Giappone per presentare un libro su invito di Matsumara Yusuke, il fondatore della Uchu yuko kyokai, conosciuta anche col suo nome inglese di Cosmic Brotherhood Association. Matsumura era un nazionalista d’estrema destra che credeva negli UFO e introdusse Williamson ai dogū. Il sensitivo americano comunicò la sua scoperta a un altro personaggio notevole dell’ufologia mondiale: il sovietico Alexander Kazantsev, il quale produsse studi e collezionò copie delle statuette giapponesi».

Roberto Pinotti del Centro Ufologico Nazionale non nasconde la fascinazione rivestita da queste statuette: «Chi come me le ha viste e avute in mano (nel mio caso, sia al Museo dell’Uomo di Parigi sia a casa del ricercatore russo Alexander Kazantsev a Mosca) non può in effetti che restarne affascinato, perché più che antiche armature stilizzate (esistono raffigurazioni del Dio celeste Hitokotonusi – disceso sulla Terra per insegnare la saggezza e farsi consegnare ogni arma imponendo la pace – che lo mostrano all’interno di una di esse con il volto umano libero che ne emerge) esse ci ricordano certamente delle tute pressurizzate, ovvero delle combinazioni di volo, così come i particolari dell’elmo evocano in effetti l’idea di un casco spaziale».

Anche Jacques Vallée, riferendosi a una di queste statuette (che sarebbe stata rinvenuta in scavi archeologici ad Amadaki, nella prefettura di Iwate, asseritamente risalente al 4300 a.C., di cui però non ho trovato alcun riscontro probante), annota la parte superiore dell’elmo, con un’apertura rotonda alla base del naso sotto quella che sembra essere una larga piastra bucherellata: «Il fatto rilevante qui è la somiglianza tra le statue dogū e molte descrizioni degli occupanti dei dischi. Tale analogia ha portato alcuni studiosi del Periodo Jōmon a ipotizzare che le statue potessero rappresentare di fatto il ricordo lontano di visitatori venuti da altrove. Il casco con il filtro per l’aria, i grandi occhiali protettivi, il grosso collare e la tuta integrale di certo sono particolari intriganti».

Il giornalista investigativo Adriano Forgione suggerisce, invece, che «la strana forma di questi Dogū è di per sé la prova lampante che la cultura Jōmon intendesse rappresentare una divinità e che tale divinità, come stiamo iniziando a comprendere, è la Dea Madre, fatto confermato dalla lunga, narrata evoluzione stilistica che i Dogū hanno mostrato, sempre associata a un soggetto femminile e relazionata a una popolazione con un marcato culto delle acque. Alcuni di questi idoli presentano seni molto pronunciati, a conferma di quanto espresso. Le decorazioni che ornano il corpo vanno pertanto viste non come il tentativo di ricreare una tuta da astronauta, bensì quale espressione simbolica a carattere sciamanico, propria della civiltà Jōmon. […] gli antichi Jōmon avevano un culto matriarcale che prevedeva non solo una simbolica, ma anche una funzione della divinità “Mater” del tutto simile a quella dell’Occidente neolitico. Simbolizzata dall’acqua e rappresentante dell’anima mundi, era colei che gestiva i cicli di morte e rinascita nella natura e nell’uomo. I Dogū quindi, lontani dall’essere arcaici alieni, sono invece la personificazione giapponese in forma di idolo della più diffusa e sentita divinità che il mondo antico abbia mai conosciuto: la Grande Dea».

Gli antropologi intervenuti nel dibattito, hanno sempre considerato queste particolari statuette delle divinità matriarcali, del tutto simili alle dee madri del Neolitico.

Pare interessante, al riguardo, analizzare brevemente il periodo Tardo Jōmon (2000 a.C.-1000 a.C.) e Jōmon Finale (1000 a.C.-400 a.C.) , che è caratterizzato da un processo di rapida decadenza di questa cultura, certificato dall’abbandono dei grandi insediamenti e dal calo drastico della popolazione.

In questi periodi terminali, si assiste all’introduzione di opere megalitiche (allineamenti e cerchi di pietre), rituali complessi e modifiche nella sepoltura dei defunti, segnali inequivocabili di disuguaglianze sociali.

Un brusco declino, osservabile in tutte le aree indagate, provocato anche dall’aumento della vulnerabilità ai cambiamenti ambientali e dalle difficoltà di reperimento delle risorse, di quella che rimane la prima civiltà al mondo ad aver utilizzato la ceramica per conservare e cucinare il cibo.

Link all’acquisto del libro L’enigma dei Jōmon (Storie e dintorni, 2024).

Link alla visione del programma Oltre la Storia di TV CITY, in cui l’autore è stato ospite il 14.02.2025.

 

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