Con il nuovo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca, il quadro di Andrew Jackson, settimo presidente americano, è tornato al suo posto, al centro dello Studio Ovale.
Il “ritorno” dell’energico presidente del XIX secolo, merita quindi un approfondimento, anche per comprendere, per quanto possibile, quale sarà la linea politica di Trump.
Andrew Jackson, salito sullo scranno presidenziale nel 1829, è ricordato per essere stato il primo presidente del Partito Democratico.Infatti, durante il mandato di John Quincy Adams, che cominciò a trasferire i nativi americani sempre più a Ovest e a rafforzare la presenza americana in America Latina, avvenne anche una grossa spaccatura all’interno del partito che lo sosteneva: i Repubblicani da quel momento si divisero, da una parte il Partito Democratico guidato da Andrew Jackson, dall’altra il Partito Whig (precursore del Partito Repubblicano di oggi, nato nel 1854) del presidente uscente, che per questa ragione perse le successive elezioni.
Jackson nel 1816, quand’era capo di Stato Maggiore, diede avvio alla spedizione militare (tremila uomini tra soldati, miliziani e truppe ausiliarie indiane) in Florida per debellare la tribù dei Seminole che spesso sconfinava in Georgia, malgrado la regione fosse ancora sotto il controllo della Spagna e la palese violazione di quella frontiera non fosse nemmeno autorizzata preventivamente dal Congresso. I Seminoles furono costretti a rifugiarsi nelle zone più paludose, dove, comunque, proseguirono un’attività di guerriglia per difendere quel che rimaneva del loro territori.
Non poteva essere che lui, quindi, a firmare l’infame Indian Removal Act nel 1830, con cui s’iniziò a cacciare dalle terre d’origine i nativi americani, in aperta contraddizione con i dettami della Costituzione, facendo sberleffo delle parole dei suoi predecessori. George Washington e James Monroe avevano, infatti, riconosciuto i diritti delle nazioni indiane, mentre John Quincy Adams si era rifiutato di aprire negoziati per cacciare i Cherokee dalla Georgia.
Monroe e Adams, in sostanza, presero in considerazione solamente trasferimenti su base volontaria e, nel contempo, rifiutarono una politica di cessioni territoriali ritenendo che queste poggiassero su false promesse o trattati estorti con l’inganno o la corruzione.
Le radici del provvedimento vanno ricercate, comunque, in un’ordinanza del 13 luglio 1787, la Northwest Ordinance chiamata anche ‘Proclama del Nord-ovest’, in cui il Congresso della federazione stabiliva il diritto sovrano di acquisire e organizzare i territori dell’Ovest americano, nella porzione a ovest della Pennsylvania, a est del Mississippi e a nord dell’Ohio, decretando allo stesso tempo il destino dei nativi. Infatti, veniva sancito che le regioni dell’Ovest potevano costituirsi in territorio al raggiungimento di sessantamila coloni, esclusi gli indiani, diventando così diciassette stati ammissibili all’Unione.
Non si può sottacere che, prima di Jackson, anche Jefferson, nei primi anni della sua presidenza, pensava di risolvere la questione pressappoco alla stessa maniera, trasferendo nei territori a ovest del Mississippi tutti i nativi che rifiutavano di assecondare il modello americano di sviluppo della società. Jefferson favorì anche la creazione di stazioni commerciali nelle immediate adiacenze delle zone occupate dagli indiani, per obbligare questi ad acquistare merci a credito: il debito accumulato dai nativi sarebbe poi stato azzerato costringendo gli stessi a cedere ulteriori porzioni territoriali allo stato federale.
Dopo una giovinezza difficile, in cui svolse anche molti umili lavori, grazie al matrimonio con una donna proveniente da una facoltosa famiglia, Jackson divenne avvocato militare del reggimento della milizia statale della Contea di Davidson, poi procuratore, infine giudice della Corte Suprema del Tennessee. Nel giro di pochi anni, egli divenne ricchissimo e comprò una sconfinata piantagione di cotone con centosessantuno schiavi al suo servizio, ma evidentemente non era quello il suo destino.
Nel 1804 Jackson lasciò, infatti, l’incarico e divenne comandante della milizia locale. Durante la guerra anglo-americana, egli fu nominato generale sul fronte meridionale, dove acquistò fama nella lotta contro i Creek e gli inglesi, partecipando anche alla vittoriosa battaglia di New Orleans del 1815.
Primo governatore della Florida, in cui aveva combattuto, Jackson perse la corsa presidenziale nel 1824, ma quattro anni dopo, anche grazie all’appoggio dei piccoli agricoltori dell’Ovest e degli agrari del sud, riuscì nell’impresa. Il suo programma elettorale verteva sulla concessione di lotti di terreno ai pionieri, soprattutto in Georgia dove c’erano le terre in cui vivevano da sempre i Cherokee.
Amato dal popolo ma inviso dalle oligarchie terriere del Sud e da quelle finanziarie del Nord, fu lui a introdurre le prime associazioni sindacali di operai e perorare la realizzazione del primo tratto ferroviario americano, la South Carolina Railroad, nel 1831, anche se le ferrovie, con vagoni trainati da cavalli, erano già in uso fin dal 1825.
Durante la sua presidenza, non mancò nel 1833 di usare la forza per soffocare una possibile ribellione in Carolina del Sud, scaturita dalla volontà di questo stato di abrogare una legge federale sui dazi che andava a danneggiare soprattutto il Sud: il presidente inviò una squadra navale a Charleston per in cui i ribelli osteggiavano apertamente l’introduzione delle tariffe protezionistiche, minacciando la scissione dall’Unione. Lo scontro fu evitato grazie al senatore Henry Clay, che riuscì a far approvare al Congresso una riduzione graduale dei diritti doganali.
Jackson, inoltre, fu senz’altro il responsabile dell’affossamento della Banca degli Stati Uniti, che durante il suo secondo mandato terminava la concessione ventennale. In questo caso il presidente aveva visto giusto, poiché quel potente organismo finanziario, tramite le sue filiali, aveva cercato di interferire con loschi intrighi nelle elezioni del 1828 e del 1832, per favorire il successo del candidato dell’opposizione. Jackson dispose, quindi, il ritiro dalla banca dei nove milioni di dollari depositati dal governo, che furono ripartiti tra sette banche private o statali.
Gli interventi di Jackson in tema finanziario furono anche altri. Per contrastare le speculazioni fondiarie dovute alla continua emissione di moneta ‘fiduciaria’ da parte delle banche, svalutata per la mancanza di adeguate riserve di moneta metallica, che continuavano a finanziare l’industrializzazione dell’Est e la colonizzazione dell’Ovest, il presidente emanò nel 1836 l’ordine esecutivo Specie Circular che vietava, da quel momento, l’accettazione di moneta cartacea per l’acquisto delle terre governative.
Fu l’ultimo provvedimento firmato da Jackson, le cui disastrose conseguenze, l’aumento dell’inflazione e dei prezzi, ricaddero naturalmente sotto la presidenza successiva, quella el suo delfino Martin Van Buren. La depressione economica che ne seguì, il cui apice si concretizzò nel 1837, portò al fallimento di numerosi agricoltori, non più in grado di ripagare i prestiti, ma anche delle banche più piccole e un generale calo dell’industrializzazione con l’aumento della disoccupazione. Per contrastare una simile crisi finanziaria, fu adottato un efficace rimedio nel 1840, con l’istituzione del Dipartimento del Tesoro, un organo indipendente munito di numerose succursali in vari Stati, che tagliava ogni sorta di rapporto tra le casse dei singoli Stati e quelle federali.
Jackson aveva uno strano concetto di democrazia, che intendeva in modo rivoluzionario, come osservava lo storico Renato Rinaldi: «Per difendere i propri principi, che non ammettevano replica, divenne dittatore, convinto sempre di servire l’ideale democratico. […] egli si avventurò a cuor leggero e sprezzante nei problemi giuridici, costituzionali ed economici, vedendo con occhio tutto proprio, ma con un’originalità pericolosa. Il valore della Costituzione, dal suo punto di vista, era subordinato alla sua personale interpretazione: le autorità della Corte Suprema si trovarono in serio imbarazzo durante la sua presidenza».
Per il resto, egli proseguì l’opera dei predecessori, annettendo all’Unione l’Arkansas nel 1836 e il Michigan l’anno dopo.
L’Indian Removal Act, la legge federale che forniva la base legale per aprire trattative tese all’acquisto di territori e la successiva deportazione, nelle riserve a ovest del Mississippi, dei nativi americani che vivevano nella porzione orientale degli Stati Uniti, liberava quelle terre coltivabili da destinare ai coloni e dava il via alla conquista del West. Peccato che, nel frattempo, come denunciato da un paio di senatori, quei latifondi erano stati già acquistati a prezzi irrisori dagli speculatori.
Le terre vicino ai binari furono concesse dal governo in sussidio alle compagnie ferroviarie, che assieme alle banche, nel giro di una decina d’anni, arrivarono a possedere le terre migliori all’Ovest, quelle che producevano il reddito più alto.
L’Indian Removal Act è il primo documento ufficiale di politica indiana del governo americano: per Paolo Deotto ci sono già le premesse del genocidio, poiché nel documento si stabiliva che il governo si arrogava il diritto di deportare le popolazioni indigene, «sconvolgendone così gli usi di vita e ponendo le basi per la distruzione di quella memoria storica che consente ad un popolo di salvare la propria identità».
È bene precisare, però, che questa legge sollevò un vivace dibattito, soprattutto alla camera del Congresso, contestata da un nutrito gruppo di delegati assolutamente contrari, tanto che il dispositivo fu approvato con una maggioranza davvero risicata.
A essere colpiti da quella norma fratricida furono soprattutto Creeks, Choctaws, Chicasaws, Cherokees e Seminoles, nel loro insieme denominate “le cinque tribù civilizzate”, poiché più di altre avevano compiuto rapidi progressi sulla via dell’acculturazione, così come richiesto dal governo federale.
I Cherokees che occupavano la Georgia, erano fra gli indiani quelli che meglio si erano adattati alle abitudini di vita dei bianchi: essi erano diventati sedentari, coltivavano il terreno e allevavano il bestiame; costruivano scuole, fattorie e addirittura chiese.
Poiché gli indiani di queste tribù civilizzate erano per la maggior parte pacifici, non si potevano certamente sterminare, anche se erano ancora considerati inferiori rispetto ai bianchi, quasi al livello degli schiavi africani. Nel 1829 lo Stato della Georgia assunse la giurisdizione sulle terre che le nazioni cherokee e creek occupavano entro i suoi confini: questa determinazione trasformava i nativi in cittadini di seconda categoria e invalidava, allo stesso tempo, i trattati da questi stipulati in precedenza con il governo federale.
Si andava così creando un grave conflitto tra la sovranità statale e quella federale, che nemmeno la Costituzione, per la sua intrinseca ambiguità, poteva risolvere.
Nonostante la decisione della Corte Suprema, che riteneva impossibile invalidare i trattati stipulati dal governo federale con gli indiani, anche altri Stati seguirono l’esempio della Georgia, quindi Jackson trovò, comunque, terreno fertile per l’approvazione da parte del Congresso dell’Indian Removal Act.
I Cherokees furono costretti ad abbandonare i luoghi d’origine sulla scorta dell’accordo siglato nel 1835 (Trattato di New Echota), approvato solo da una minoranza di nativi, quindi deportati nella seconda metà del 1838 per migliaia di chilometri lungo il cosiddetto Sentiero delle lacrime: partirono in undicimila, ma durante quell’estenuante migrazione forzata ne morirono quattromila per stenti come diretta conseguenza dello spostamento.
In tutto furono trecentosettanta i trattati firmati tra i rappresentanti degli Stati Uniti e quelli degli indiani, ma nessuno di questi fu rispettato dal governo federale. Fra l’altro, molti di questi trattati non furono nemmeno ratificati dal Congresso.
Non tutte le tribù accettarono le imposizioni governative. Nel 1832 Sauk, Meskwaki e Kickapoo alla guida di Black Hawk si ribellarono in quello che oggi è il Wisconsin; i Creeks, dopo essere stati quasi annientati da Jackson nel 1814, si allearono con i Seminoles, appartenenti alla stessa famiglia linguistica, e battagliarono nel 1836 in Tennessee, Georgia e Alabama; anche una nutrita schiera di Cherokees iniziò una guerra di resistenza che si protrasse per decine d’anni.
Nel 1832 Jackson nominò anche un commissario responsabile del Bureau of Indian Affairs (Ufficio per gli Affari Indiani), una nuova struttura alle dirette dipendenze del Dipartimento della Guerra, con il compito di garantire l’applicazione delle leggi stipulate in materia indiana.
Due anni dopo il Congresso approvò l’Act to regulate trade and intercorse with the indian ribes and to preserve peace on the frontiers, che stabiliva la frontiera indiana permanente «che si estendeva ad ovest del 95° novantacinquesimo meridiano con l’esclusione degli stati del Missouri, della Louisiana e del Territorio dell’Arkansas.
Tutte le tribù ad est di questo nuovo confine fra “civili” e “selvaggi” furono costrette a spostarsi sotto la supervisione dell’esercito al di là della “frontiera”. Per tenere gli indiani oltre il novantacinquesimo meridiano e per impedire ai bianchi non autorizzati di superarlo, vennero istituiti una serie di presidi militari permanenti».
Gli unici che cercarono di difendere, in qualche modo, i diritti dei nativi furono gli agenti del Bureau of Indian Affairs o Indian Service, la struttura collegata al Dipartimento della Guerra, che fungevano anche da intermediari tra le varie tribù e l’esercito federale. Purtroppo, le loro richieste per far approvare dal Congresso, di volta in volta, un budget sufficiente per risarcire gli indiani costretti ad abbandonare le loro terre, non furono mai prese in seria considerazione, allo stesso modo dei trattati che, come già accennato, spesso non venivano nemmeno convalidati. È anche vero, però, che alcuni di questi agenti, sovente, si accordavano con i mercanti per vendere viveri e mercanzie scadenti agli indiani.
Da quel momento iniziarono le Guerre indiane, un termine generico che ricomprende i numerosi conflitti armati tra varie tribù di nativi americani e le forze governative – che coinvolgevano di volta in volta poche centinaia di individui e che non avvenivano quasi mai in “campo aperto” -, in un lungo periodo di violenze che terminò drammaticamente con il massacro di Wounded Knee nel 1890, in cui furono uccise anche centinaia di donne e bambini. Un aberrazione che, in verità, come allude Natan Mondin, comprende «tutte le campagne militari volte a garantire l’espansione della sovranità americana sui territori del West».
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