Per comprendere le difficoltà finora riscontrate nella ricerca di prove che attestino, in qualche modo, la presenza nel nostro passato di entità aliene, occorre considerare che la stessa problematica si riscontra oggi nella ricerca di comunicazioni provenienti dallo spazio profondo.
La ricerca di comunicazioni provenienti da possibili entità extraterrestri, che stiamo cercando di intercettare da almeno cinquant’anni, da quando esiste il SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), potrebbe contenere qualcosa di interessante, almeno per quel che concerne l’indirizzo da seguire anche per la ricerca di prove della presenza di extraterrestri nell’antichità.
Finora il programma non ha individuato nessun segnale radio artificiale proveniente da pianeti della nostra galassia, che pur contiene qualche centinaia di miliardi di stelle.
Eppure, anche nella porzione di galassia a noi più vicina in anni luce, ci sono almeno un migliaio di stelle molto simili al Sole, che potrebbero quindi aver permesso lo sviluppo di forme di vita intelligente su qualche pianeta.
Anche il messaggio radio che abbiamo trasmesso dalla Terra nel 1974, senza dimenticare le placche comunicative impresse sulle sonde Pioneer 10 nel 1972, Pioneer 11 nel 1973 e Voyager Golden Record nel 1977, non hanno ricevuto, purtroppo, nessuna risposta.
Il fisico e divulgatore Jim Al-Khalili, partendo dal presupposto che le leggi della fisica siano le stesse in tutto l’universo, e che «uno dei mezzi più semplici e più versatili per trasmettere informazioni siano le onde elettromagnetiche», ritiene ancora del tutto sensato aspettarsi che «anche le civiltà aliene avanzate utilizzino, o abbiano utilizzato a un certo punto del loro progresso, questo mezzo di comunicazione. E se così fosse, allora alcune di queste onde si sarebbero inevitabilmente disperse nello spazio, diffondendosi radialmente nell’universo alla velocità della luce».
Archaeology, anthropology, and interstellar communication, editato da Douglas A. Vakoch nel 2014 per la NASA (National Aeronautics and Space Administration), disponibile on line, è un volume in lingua inglese che raccoglie notevoli contributi di esperti di ogni branca del sapere che dibattono sulla questione di possibili segnali provenienti da entità aliene.
Vakoch, laureato in religione comparata, storia e filosofia della scienza e psicologia clinica, professore presso il Dipartimento di Clinical Psychology al California Institute of Integral Studies, è direttore della composizione dei messaggi interstellari presso il SETI Institute di Mountain View e presidente del METI International (Messaging Extraterrestrial Intelligence) di San Francisco.
Presentando il volume, lo scienziato sottolinea che «negli ultimi quindici anni, abbiamo appreso che ci sono pianeti là fuori. Ora sappiamo che quasi tutte le stelle hanno pianeti: circa una su cinque probabilmente ha un pianeta simile alla Terra in una zona abitabile. Sapere dove sono i pianeti ci consente di dare la priorità a questi obiettivi nelle nostre ricerche. Questo in realtà sarebbe stato ancora più rilevante se si fosse scoperto che i pianeti sono rari! Ma il fatto stesso che ne stiamo trovando così tanti – ora sappiamo che ci sono pianeti all’incirca delle dimensioni della Terra all’interno delle zone abitabili anche delle nane rosse – è un punto di svolta. Sappiamo che ci sono posti in cui potrebbero vivere gli extraterrestri».
Le affermazioni di Vakoch, chiaramente, fanno tesoro anche dell’equazione dell’astronomo Frank Drake, che già negli anni Sessanta del secolo scorso enunciò una formula matematica per stabilire quante civiltà extraterrestri potessero esistere, sulla scorta della ricerca di segnali radio nella nostra galassia.
Ma non tiene in nessun conto il cosiddetto “Paradosso di Fermi”, con cui il fisico Enrico Fermi, un decennio prima di Drake, sostenne invece, mancanza di indizi alla mano, la difficoltà di trovare prove dell’esistenza di tutte queste ventilate entità aliene. Lo scienziato italiano, premio Nobel per la Fisica nel 1938, così si espresse rivolto ai colleghi nel corso di una conversazione a tavola, a Los Alamos in Nuovo Messico nel 1950: «Se l’universo è pieno di alieni, dove sono tutti quanti?».
I segnali extraterrestri che viaggiano alla velocità della luce, però, possono impiegare secoli o millenni per raggiungere i destinatari.
Quindi la comunicazione interstellare, secondo Vakoch, può essere considerata una trasmissione a senso unico di informazioni, per di più se provengono da civiltà che potrebbero già essersi estinte.
Senza dimenticare che il più grande ostacolo alla ricezione di messaggi provenienti da altrove potrebbe anche essere la mancanza di una tecnologia, ancora da scoprire, in grado di ricevere questi segnali, riconoscerli come tali e infine decodificarli.
Ancor oggi, come scrive il giornalista Mike Pearl in The Day It Finally Happens del 2019, un libro in cui descrive gli scenari più catastrofici per il nostro futuro, i nostri strumenti per la ricerca di comunicazioni provenienti dall’universo sono praticamente gli stessi radiotelescopi che abbiamo visto nel film Contact. Inoltre, nella peggiore delle ipotesi, i processi mentali alieni potrebbero essere diametralmente diversi dai nostri, così da impedire una qualsiasi forma di comunicazione con noi.
Nello studio Inscribed matter as an energy-efficient means of communication with an extraterrestrial civilization, pubblicato su Nature (Volume 431 Issue 7004, 2 settembre 2004), il professore d’ingegneria Christopher Rose della Brown University in Rhode Island e l’astrofisico Gregory Wright, hanno suggerito di accantonare del tutto le trasmissioni elettromagnetiche, per l’inevitabile dispersione e riduzione della potenza del segnale sulla distanza di poche decine di anni luce, e di utilizzare sonde interstellari contenenti informazioni per cercare il contatto con gli extraterrestri, poiché ritengono sia un mezzo di comunicazione più efficiente anche dal punto di vista energetico. Rose ha dichiarato che «se la fretta non è importante, l’invio di messaggi inscritti in qualche materiale può essere sorprendentemente più efficiente della comunicazione tramite onde elettroniche».
William H. Edmondson, Honorary Senior Research Fellow presso la School of Computer Science at the University of Birmingham, ritiene che esseri extraterrestri potrebbero monitorare l’ambiente in cui vivono usando sensori per registrare stimoli esterni come pressione atmosferica, pressione acustica e radiazione elettromagnetica. Il ricercatore di Scienze Cognitive e Linguistica suggerisce che «la biofisica sensoriale di questi esseri sia funzionalmente equivalente alla nostra. Gli esseri saranno in grado di percepire il mondo — o parti dei dati spettrali disponibili — perché la fisica e la chimica dell’universo è uniforme. È plausibile supporre che la biochimica terrestre sia essenzialmente universale».
Per Edmondson l’uso di sistemi basati su simboli, suoni o linguaggi terrestri nei messaggi SETI non sarebbe per niente efficace, poiché richiederebbe da parte degli alieni un approccio culturale contestualizzato.
Egli fa l’esempio dell’arte rupestre, che «consiste di motivi o forme tagliati nella roccia molte migliaia di anni fa. Tali antiche sculture in pietra si trovano in molti paesi […]. Possiamo dire poco, se non altro, su cosa significano questi schemi, perché sono stati tagliati nelle rocce o chi li ha creati. A tutti gli effetti, potrebbero essere stati creati da alieni. A meno che non troviamo una loro esegesi leggibile prodotta al momento in cui sono stati fatti, non potremo mai dire con certezza cosa significano gli schemi».
Probabilmente, l’unico modo di comunicare con forme extraterrestri potrebbe essere, conclude Edmondson, la trasmissione di immagini che contengano attività o materiale concettuale che non richiede interpretazione sequenziale.
L’archeologia e l’antropologia, secondo l’intervento dei rispettivi autori, possono fornire parallelismi affascinanti. Per esempio l’antropologo Ben Finney e lo storico Jerry Bentley suggeriscono di trovare indizi per la decodifica di messaggi extraterrestri vagliando i tentativi, e soprattutto le difficoltà, nel cercare di decifrare le lingue morte dei nostri antenati.
Non sarà per niente semplice, poiché non avremo sicuramente a disposizione una Stele di Rosetta a facilitarci il compito. Forse si potrà comprendere il messaggio alieno nelle parti in cui è contenuto un qualche codice riconducibile alla matematica e all’astronomia, ma sarà certamente impossibile capire l’aspetto culturale che la civiltà aliena voleva comunicare.
L’esempio più pregnante è senz’altro la decodifica dei geroglifici maya, possibile per la parte del messaggio contenente informazioni scientifiche, un po’ meno per l’idea che tali segni dovevano preservare per i posteri.
Secondo Finney e Bentley, può essere utile alla causa anche analizzare come sia avvenuta la trasmissione della conoscenza dall’antica Grecia all’Europa durante il Medioevo: infatti, nonostante il notevole lasso di tempo intercorso, le opere che si credevano irrimediabilmente perdute furono invece rinvenute grazie alle copie tradotte e conservate nei centri di studio islamici, soprattutto in Spagna e in Sicilia.
Da lì, grazie alla sapienza proveniente da un passato remoto, nacque e si consolidò un periodo di fioritura culturale giustamente chiamato Rinascimento.
L’archeologa Kathryn E. Denning, professore associato presso il Dipartimento di Antropologia alla York University, membro del comitato SETI dell’International Academy of Astronautics, che collabora a progetti di ricerca con il NASA Astrobiology Institute, invece non è per niente convinta che le metodologie crittografiche e archeologiche, e in genere le discipline scientifiche (matematica, fisica e chimica) ma anche umanistiche, da sole, possano venire impiegate con successo nell’interpretazione di messaggi interstellari.
Tuttavia sostiene che possibili analogie linguistiche per comprendere un messaggio alieno vadano ricercate in quelle lingue terrestri ancora da decifrare, come il Rongorongo o il Lineare A: «I fallimenti indicano uno spazio in cui possiamo imparare, informazioni che dobbiamo acquisire, teorie che dobbiamo costruire e ipotesi che dobbiamo identificare e scartare».
Ma per la decodifica, suggerisce Denning, occorrerà senz’altro anche l’aiuto dell’intelligenza artificiale.
Per l’archeologo Paul K. Wason, vicepresidente delle scienze della vita e della genetica presso la John Templeton Foundation, la sua branca potrebbe contribuire significatamente per determinare se il segnale dallo spazio vada inteso veramente come un mezzo di comunicazione e se davvero è una manifestazione proveniente da un’intelligenza extraterrestre.
Wason, sulla scorta della sua esperienza, aggiunge che potremmo pure dare un senso generale all’ipotetico messaggio, anche se nell’impossibilità di comprendere il significato preciso, come avviene d’altronde per i problemi d’interpretazione dei sistemi simbolici, in cui spesso i segni si trovano a interagire, in una relazione arbitraria, con le idee che vogliono rappresentare.
Con quali risultati, è difficile a dirsi: «L’archeologia non è sempre riuscita nei suoi sforzi. Peggio ancora non è sempre possibile stabilire se i ricercatori siano sulla buona strada. Consideriamo l’arte rupestre paleolitica dell’Europa meridionale che è stata studiata per più di un secolo. Molte teorie sono state offerte in merito al significato di questi dipinti (cosa significano, perché sono stati dipinti, e così via), ma a questo punto non c’è accordo, e quindi la domanda è la seguente: quale speranza abbiamo di comunicare con extraterrestri se noi facciamo fatica a comprendere le immagini simboliche prodotte in Europa recentemente, dodicimila anni fa, dai membri della nostra stessa specie?».
Come suggerito dallo studio dell’arte rupestre, se riusciamo a riconoscere qualcosa come il prodotto del comportamento simbolico, abbiamo già imparato molto senza avere la minima idea di cosa significhino i simboli.
Sappiamo che esiste un individuo capace di attività intelligente di alto livello, che questo individuo stava cercando di comunicare e che questo individuo è quindi un essere sociale.
Hai letto un estratto da Antichi astronauti (Cerchio della Luna Editore, 2022).