Nell’estate del 1937 John Fitzgerald Kennedy ha appena festeggiato vent’anni e può concedersi una lunga vacanza – quasi tre mesi – nel Vecchio Continente, dopo aver frequentato il primo anno all’Università di Harvard.
In macchina con lui l’amico fraterno LeMoyne Billings.
Dopo aver visitato diverse nazioni comprese Spagna, Italia e Francia, i due trascorrono almeno cinque giorni in Germania: a quel punto, con loro a bordo della Ford Cabriolet, anche una ragazza tedesca conosciuta in quel frangente e che Kennedy definirà «l’essenza del divertimento».
Quel che conosciamo di quel viaggio è desunto anche nei testi conservati al John F. Kennedy Presidential Library and Museum di Boston, in cui il futuro presidente degli Stati Uniti d’America scrisse dell’esperienza.
Nell’agosto di quell’anno, Kennedy credeva che il fascismo fosse «la cosa giusta per la Germania e per l’Italia, il comunismo per la Russia e la democrazia per l’America e l’Inghilterra. Che sono i mali del fascismo al confronto del comunismo?».
Non poteva mancare naturalmente un accenno a Hitler, all’epoca saldamente al comando: «Sembra che qui Hitler sia molto popolare, come Mussolini in Italia, e che la propaganda sia la sua arma più potente»; ma Kennedy si spingeva anche a descrivere luoghi e persone: «Le città sono molto belle, dimostrano che le razze nordiche sono certamente superiori a quelle latine. I tedeschi sono effettivamente troppo bravi, inducono gli altri popoli a coalizzarsi contro di loro per difendersi».
Lo storico Giordano Bruno Guerri chiarisce però che «Stati Uniti e Gran Bretagna venivano considerati, dal futuro presidente, Paesi così evoluti da essere pronti per la democrazia; la Russia, invece, così arretrata da avere bisogno di un periodo di collettivismo forzato, mentre i due Paesi usciti sconfitti dalla Prima guerra mondiale, e in pieno tumulto sociale, avevano bisogno del pugno forte della dittatura. Pensieri banali, ma molto diffusi allora, e poteva ben averli uno studente americano».
Guerri suggerisce che probabilmente Kennedy volesse annotare «qualcosa di ovvio, ovvero il carisma di Hitler, quel carisma che aveva permesso al Führer di sedurre il proprio popolo: un argomento che non poteva non affascinare un giovane già con ambizioni di capo del proprio popolo. È più sorprendente, e disdicevole, che Kennedy preferisse parlare della tecnologia militare dei tedeschi piuttosto che dei campi di sterminio, ormai noti. Anche in questo caso si può ricordare che Joseph [il padre, nda] non brillava per amore verso gli ebrei, ma andremmo troppo lontani con deduzioni e illazioni».
Kennedy tornerà in Germania altre tre volte. La prima nel 1939 per documentarsi sugli accordi di Monaco e cercare di comprendere perché la Gran Bretagna sottovalutasse la minaccia rappresentata da Adolf Hitler, senza riuscire a opporsi allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Gli accordi di Monaco. L’inevitabile risultato della lentezza con cui la democrazia britannica abbandonò la politica del disarmo, questo il titolo scelto per la sua tesi di laurea, fu poi condensata nel libro Why England slept (Perché l’Inghilterra dormiva) che vendette ottantamila copie tra Stati Uniti e Gran Bretagna.
Nel 1945, pochi mesi dopo il suicidio di Hitler, egli tornava in Europa come corrispondente del Chicago Herald-American e del New York Journal-American (entrambi della Hearst Communications di William Randolph Hearst, un amico di famiglia) per seguire la Conferenza di Potsdam, ma anche per visitare Kehlsteinhaus, il famoso Nido dell’Aquila del Führer.
Infine, da presidente degli Stati Uniti, Kennedy sarà a Berlino Ovest per quattro giorni nel giugno 1963, ove il 26 tenne il celebre discorso in cui pronunciò più volte le parole «Ich bin ein Berliner (Io sono di Berlino)» di fronte a un’entusiasta platea di centoventimila persone, due anni dopo la costruzione del muro che per ventotto anni impedirà la libera circolazione delle persone.
Nel 2017 Deidre Henderson, che fu assistente di ricerca nell’ufficio di Boston dell’allora senatore Kennedy nel 1959 e nel 1960, ha messo all’asta per duecentomila dollari un diario autentico e autografato che l’uomo politico scrisse dopo il viaggio in Germania nel 1945. Dalle memorie vergate dal giovane rampollo di una delle famiglie più in vista d’America, in tutto dodici pagine scritte a mano e quarantanove dattiloscritte, traspare in qualche modo anche una fascinazione per Hitler: «Chi ha visto questi luoghi può senz’altro immaginare come Hitler, dall’odio che adesso lo circonda, tra alcuni anni emergerà come una delle personalità più importanti che siano mai vissute. La sua ambizione sconfinata per il suo Paese ne ha fatto una minaccia per la pace nel mondo, ma lui aveva qualcosa di misterioso nel suo modo di vivere e nella sua maniera di morire, che gli sopravvivrà e continuerà a crescere. Era fatto della stoffa con cui si fanno le leggende».
Oliver Lubrich, il professore di letteratura tedesca e comparata all’Università di Berna che ha condensato in un’antologia lettere, diari e riflessioni di personaggi che visitarono la Germania tra gli anni 1933 e 1945, ritiene che «l’affermazione che Adolf Hitler fosse ‘della stoffa delle leggende’ appare sconcertante» mentre «il fatto che non si sia quasi occupato dell’Olocausto, ma della tecnologia militare dei tedeschi è dal punto di vista odierno come minimo discutibile».
Eppure, come giustamente rileva lo storico Sergio Romano, «Mai come negli anni Trenta i giovani furono bombardati da messaggi tanto diversi e chiamati a fare scelte tanto difficili. Fu la guerra, in molti casi, che scelse la loro vita. Kennedy combatté nel Pacifico, comandò una piccola nave che venne speronata dai giapponesi, portò in salvo quelli fra i suoi compagni che erano sopravvissuti, meritò una medaglia al valore».
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