L’archeologo francese Henri Lhote, nel secolo scorso, balzò alle cronache per aver riscoperto i dipinti e le incisioni del Tassili in Algeria, già ammirate nel 1932 dal connazionale Charles Brenans.
Lhote, che trascorse comunque decenni in Africa, giunse alla notorietà solo nel 1957 quando, dopo aver rinvenuto i petroglifi, li ricopiò per presentarli al Musée des Arts Décoratifs di Parigi.
L’archeologo catalogò in seguito migliaia di graffiti neolitici presenti nella valle di Illizi.
Le scoperte di Lhote furono condensate nel volume A la decouverte des fresques du Tassili pubblicato nel 1959: l’edizione italiana Alla scoperta del Tassili uscì lo stesso anno.
Fece scalpore quando egli azzardò scanzonato che alcune figure incise sulla roccia fossero dipese da visite di extraterrestri avvenute nell’antichità: suggerì anche che una delle rappresentazioni più grandi, incisa sul massiccio del Jabbaren, soprannominata “Il gran dio marziano”, potesse essere una divinità proveniente da Marte: «La si può senz’altro considerare una delle più grandi pitture preistoriche fino ad oggi conosciute. […] Il contorno è semplice, senz’arte, e la testa è rotonda; in essa l’unico particolare indicato è un duplice ovulo al centro; particolare che evoca l’immagine che noi comunemente ci facciamo dei Marziani! Che titolo sensazionale per un servizio giornalistico! Perché se i Marziani hanno mai messo piede nel Sahara, questo dovrebbe risalire a molti secoli fa, dato che questi affreschi del Tassili raffiguranti uomini dalla testa rotonda sono, a quanto ne sappiamo, tra i più antichi».
L’immagine descritta da Lhote con così tanta enfasi, in realtà rappresenta un essere umano ornato di maschera con indosso un costume rituale, come ha sostenuto, per esempio, il sociologo Roberto Pinotti ne I messaggeri del cielo, un libro pubblicato nel 2002.
Alberto Arecchi, invece, dopo aver consultato la raccolta fotografica 1900: l’Afrique decouvre l’Europe del 1978 curata da Eric Baschet, trovò la sequenza di un funerale fotografata nella regione del lago Ciad all’incirca negli anni Venti del secolo scorso: osservando le prime fotografie della sequenza, egli annota che «non si può fare a meno di constatare che il trattamento rituale, riservato a quel morto dagli eredi degli antichi abitanti di Jabbaren, emigrati alcune migliaia di chilometri più a sud, addobba il morto esattamente come l’immagine che ottomila anni fa era stata dipinta sulle montagne sahariane, sino a dargli l’apparenza di uno “scafandro spaziale”, con il casco rotondo sulla testa».
Secondo Lhote, due erano principalmente gli stili predominanti: «Uno simbolico, più antico, probabilmente di origine negra [che oggi comunemente viene definito delle “teste rotonde”, caratterizzato dalla presenza di figure umane la cui testa, di solito unita al corpo senza collo, è rappresentata da un cerchio privo di tratti facciali, nda]; l’altro più recente, decisamente naturalista, in cui si notano influenze nilotiche».
All’epoca l’archeologo, rifacendosi all’opinione generale maturata a seguito di analoghe pitture rinvenute ad Altamira in Spagna e a Lascaux in Francia, conveniva che anche l’arte preistorica del Tassili trovasse fondamento in pratiche di magia nate nell’ambito della religione.
Nell’arte del Tassili ha un ruolo di preminenza il bue domestico, tanto che Lhote scrive di una civiltà di pastori “bovidiani”, con uno stile naturalistico caratterizzato da temi pastorali.
La cultura dei pastori, per l’autore della riscoperta, sarebbe stata in un certo momento in contatto con la civiltà egiziana, poiché egli rinvenne negli affreschi, per «ben cinque volte», «la riproduzione della barca del Nilo, elemento decisivo a conferma dell’origine orientale di questa gente».
Inoltre, in molte composizioni contenenti temi pittorici rinvenute ad Aouanrhet, Lhote rilevava un’evidente influenza egiziana; di fronte alle figure che ornano quella della ‘nuotatrice’, egli annotava per esempio, con stupore: «considerate le credenze in onore nell’Egitto faraonico – credenze che devono avere radici in un passato più lontano – può darsi si tratti della rappresentazione del viaggio della morte nell’al di là».
Hugo Alexander van Teslaar dell’Universidad Complutense de Madrid, nell’articolo Pitture rupestri del Sahara: l’arte del Tassili n’Ajjer, pubblicato on line su Storica il 30 marzo 2020, annota però che nel 2002 l’antropologo britannico Jeremy Keenan «denunciò in un articolo che Lhote aveva esposto delle riproduzioni false. Si riferiva in particolare a delle riproduzioni che avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza di contatti tra il Sahara centrale e l’Egitto dell’epoca dei faraoni. Nell’articolo si mostravano svariate prove del fatto che Lhote avesse manipolato intenzionalmente i risultati delle sue scoperte per renderle decisamente più attraenti agli occhi del grande pubblico».
Keenan, che nel 1962 e 1999 aveva studiato i Tuareg algerini complessivamente per undici anni, nel libro The lesser gods of the Sahara del 2004 sottolineava infatti come molte delle affermazioni del capo della spedizione Lhote fossero fuorvianti: «Alcuni dipinti erano falsi e il processo di copia era irto di errori. La “scoperta” può essere compresa solo all’interno del contesto politico e culturale dell’epoca, vale a dire la rivoluzione algerina, il tentativo francese di spartire l’Algeria e le opinioni prevalenti dell’abate Breuil, l’arcivescovo dell’influenza straniera nell’arte rupestre africana. I metodi della spedizione hanno causato ingenti danni all’arte rupestre mentre il successivo saccheggio di oggetti culturali ha sterilizzato efficacemente il paesaggio archeologico».
Per quel che concerne la datazione delle figure rupestri composte dai pastori ‘bovidiani’, Lhote, all’epoca ancora in attesa dell’analisi del carbonio 14 contenuto nel carbone di legna raccolto tra le ceneri, azzardava a collocarle «all’incirca nel 3500 a.C., data media dell’arrivo dei pastori, che, tuttavia, sembra abbiano abitato il Sahara per parecchi millenni. Le altre pitture appartenenti ai diversi stadi degli uomini della testa rotonda, sono molto più antiche. I primissimi stadi corrispondono certamente a un periodo neolitico […]. Noi pensiamo sia ragionevole attribuire a queste pitture ottomila anni di età, il che le fa risalire a un periodo neolitico molto antico».
Una datazione più convincente per queste pitture rupestri è stata proposta solo di recente, nello studio OSL dating of quaternary deposits associated with the parietal art of the Tassili-n-Ajjer plateau (Central Sahara), pubblicato sulla rivista Quaternary Geochronology nel 2012.
La squadra di Jean-Loïc Le Quellec, direttore della ricerca presso il Centre d’Etudes des Mondes Africains, dopo aver campionato tredici frammenti di terreno su cui i pittori camminarono (depositi quaternari conservati ai piedi delle pareti dipinte e che possono essere collegati ad essi), li ha sottoposti alla tecnica dell’OSL (optically stimulated luminescence), che restituisce datazioni abbastanza precise del momento in cui i grani di quarzo presenti naturalmente nei sedimenti non hanno più visto la luce solare.
Il metodo viene utilizzato per datare ceramiche, altri materiali riscaldati (mattoni, pietre, terra) o sedimenti relativi a reperti archeologici e permette, a differenza della tecnica del Carbonio 14, di datare anche oggetti privi di sostanza organica.
L’esame con la luminescenza otticamente stimolata ha quindi restituito una datazione assestata al massimo tra il 9000 a.C. e il 10000 a.C., un periodo in cui la regione del Sahara godeva di un clima più umido per la presenza della savana.
In realtà, lo stesso Le Quellec suggerisce per i disegni una datazione risalente ragionevolmente al 4500 a.C., che rimane comunque controversa nell’ambiente degli specialisti, al pari del significato da attribuire a quest’arte misteriosa.