Nel 1974 il regista e produttore televisivo Alan Landsburg condensò in un libro (In search of ancient mysteries, edizione italiana Alla ricerca di antichi misteri, 1977), le conoscenze acquisite sull’argomento, dopo aver realizzato una serie televisiva di grande successo.
Fra l’altro fu proprio lui a scoprire le miniature colima dei cosiddetti jet della Colombia, di cui ho discusso in Antichi astronauti. L’autore, in estrema sintesi, proponeva che gli extraterrestri, una volta giunti sulla Terra, avrebbero costruito la prima base a Tiahuanaco, sul Lago Titicaca.
Landsburg, dopo aver esposto i fatti, si interrogava sulla mancanza di prove del contatto alieno con l’umanità: «Sappiamo forse quante civilizzazioni passate, decine di migliaia d’anni fa, vennero inesorabilmente distrutte dall’avanzata del ghiaccio o della lava, o dall’acqua? Colonie spaziali potrebbero essere arrivate e ripartite a intervalli di cinquantamila anni, e noi non avremmo modo di saperlo: pur potendo sospettarlo, dagli indizi di bruschi mutamenti dell’umanità».
In un altro lavoro, In search of lost civilisations del 1976 (edizione italiana Alla ricerca di civiltà perdute, 1978), Landsburg aveva invece investigato la fine delle civiltà, suggerendo per i Maya (ma il discorso potrebbe essere valido per molte altre culture collassate del passato), che «la spiegazione più plausibile, secondo molti esperti, è che vi fu una rivolta delle masse. La potente macchina umana che aveva mosso tanti enormi massi, costruito tanti templi e centri di riti, potrebbe avere perso il lume della ragione e distrutto chi la comandava, per finire poi alla deriva». Infine, con L’immortalità degli UFO. Nuove sensazionali prove che non siamo soli nell’universo del 1980 (titolo originale The outer space connection, 1975) scritto a quattro mani con la moglie Sally, Landsburg rivelò di essere rimasto ammaliato dal colloquio con Marc Lappe, laureato alla Wesleyan University, un dottorato di ricerca in patologia sperimentale presso l’Università della Pennsylvania, già socio fondatore dell’Hastings Center, il primo istituto di bioetica americano (in seguito direttore del Center for Ethics and Toxics a Gualala, California).
Lappe, che morirà nel 2005 per un tumore al cervello, gli parlò all’epoca del cosiddetto ‘gene imprigionato’ («geni rimasti isolati, imprigionati in qualche recesso oscuro del nucleo»), cioè una specie di capsula temporale insita nelle nostre informazioni genetiche, in grado di detonare in momenti critici.
Landsburg quindi si chiedeva: «È possibile che ci trasciniamo nelle cellule da innumerevoli generazioni un bagaglio di informazioni che per emergere aspetta solo il segnale adatto? […] Seguendo la teoria per cui scopo della natura umana è sopravvivere e tutti i meccanismi del corpo sono stati concepiti col fine di fornire i mezzi per la sopravvivenza e la procreazione (l’unica forma di immortalità di cui siamo assolutamente certi), trovai un punto nel quale inserire il gene ‘recluso’. Il costante attacco sferrato da condizioni ambientali ostili alla sopravvivenza potrebbe essere il segnale capace di far emergere il gene imprigionato».
L’autore speculava dell’esistenza di un ‘modello fondamentale’, contenente lo schema genetico di una forma di vita generalizzata e sofisticata, seminato nello spazio e collocato sulla terra in un lontano passato. Un modello in grado di funzionare in qualsiasi circostanza, grazie alla possibilità di mutare struttura e funzione dell’organismo, proprio grazie all’annesso ‘gene imprigionato’.
Landsburg si convinse che la razza umana avrebbe quindi potuto eternarsi inviando i propri embrioni in altri mondi o spazi dove potevano di nuovo riprodursi.
In fondo anche Peter Kolosimo la pensava più o meno così: «L’esplorazione cosmica va considerata come una nuova, inevitabile fase dell’evoluzione scientifica e tecnica, alla quale non potremmo rinunciare senza compromettere per sempre le sorti del nostro genere».