Nanshe, figlia di Enki, è ricordata anche come dea della giustizia sociale e della divinazione. L’arte della divinazione era ben conosciuta in Mesopotamia, poiché di trattava di una forma di comunicazione che permetteva di conoscere la supposta volontà degli dei. Chi svolgeva questa pratica erano i baru, in grado di comunicare in anticipo le determinazioni divine e quindi porre rimedio, se possibile, con rituali di purificazione.
Secondo la tradizione, era stato il settimo re predinastico di Sumer, Enmeduranki di Sippar (città consacrata al culto del dio Sole), a ricevere dalle divinità il dono di predire gli eventi, un arte che poi sarebbe stata trasmessa ai sacerdoti. Fra l’altro, Enmeduranki corrisponde ad Enoch del Genesi, anche lui della settima generazione dopo Adamo: entrambi ascesero al cielo, ricevendo rivelazioni divine.
Insomma, gli indovini, come ricorda Massimo Vidale, Docente di Archeologia dei processi Produttivi e Near Eastern Archaeology presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova, «erano individui influenti e rispettati da tutti, che venivano sistematicamente consultati per i più importanti affari di Stato; ogni esercito aveva un indovino ufficiale, che rivestiva importanti cariche militari. Segni, presagi e interpretazioni di importanza storica venivano sistematicamente trascritti e compilati in grandi raccolte, che formano una delle più concistenti categorie di testi letterari».
L’indovino poteva prevedere il futuro tramite la lettura dei fenomeni atmosferici e dei segni celesti (che fece nascere la scienza dell’astrologia), oppure il comportamento assunto dagli animali. Nei fatti, l’indovino era anche un medico che sperimentava soluzioni per chi contraeva malattie, che si ritenevano provocate da demoni, i quali andavano combattuti con la somministrazioni di intrugli, l’esecuzione di incantesimi e riti di purificazioni, la recita di scongiuri.
L’assiriologo Jean Bottero scriveva: «Tutti questi “dèi malvagi”, “spiriti”, “fantasmi dei trapassati” e tutti gli altri mostri di ogni razza, quali: alu, gallu, asakku, Lamashtu, Pazuzu, Namtaru, Lilu, ecc., erano stati divisi in sette grandi categorie, e il loro aspetto, la loro origine, il loro habitat, la loro “specialità” nociva avevano dato luogo a tutta una demonologia fantastica, fuligginosa e complicata. Se qualcuno è ammalato, ad esempio, ciò è dovuto al fatto che uno di questi dèmoni “ha messo la sua testa nella testa del paziente, la sua mano nella sua mano, il suo piede nel suo piede”; “si è seduto con lui sulla sua sedia, si è coricato nel suo letto…, è entrato con lui nella sua casa”, in poche parole ha preso possesso di lui e ne ha provocato la malattia, assumendo così quello stesso ruolo che i “miasmi” ebbero per tanto tempo qui da noi, nell’immaginazione popolare».
Sergio Ribichini, collaboratore associato senior dell’Istituto per la Conservazione e valorizzazione dei Beni Culturali del CNR, rivela: «Tavolette di contenuto magico sono state rinvenute anche tra le rovine di Assur e di altre città mesopotamiche, sicché l’ampio panorama della letteratura sumerica e accadica, dal tempo della III dinastia di Ur (fine del III millennio a.C.) all’epoca seleucide del IV-II secolo a.C., è assai ricco di simili testimonianze».
I riti d’esorcismo, facenti parte del culto, venivano praticati dai sacerdoti chiamati ashipu, coadiuvati da un clero minore composto da kalu (lamenta tori) e mashmashu (purificatori). È ancora Ribichini che specifica come, nella realtà mesopotamica, ci fossero in materia delle specializzazioni tra i sacerdoti, poiché appariva indispensabile l’intervento, di volta in volta, di uno specialista che fosse in grado di affrontare i mali provocati dai demoni.
Ecco, allora, l’ashipu, un esorcista scongiuratore, le cui funzioni erano ben diverse da quelle di un sacerdote-indovino. Egli era un “uomo delle parole” o “dalla bocca pura”, che sovente veniva accompagnato da altri sacerdoti, come i “lamentatori” o “purificatori”.
Tra le maggiori divinità che venivano invocate, rigorosamente in lingua sumerica (considerata, dalla seconda metà del II millennio, del tutto esoterica e non più utilizzata, se non in certi ambiti) durante le cerimonie per la ricerca dei demoni, compaiono il dio Enki e suo figlio, dio degli scongiuri, Asalluhi, che nell’Enuma Elish compare fra i cinquanta nomi di Marduk.
Nelle antiche società mesopotamiche, la magia come pratica operativa compariva in tutte le manifestazioni del culto e della vita religiosa, che fossero riti di consacrazione e purificazione di un tempio, oppure la liberazione da un male identificato con la divinazione.
Lo scongiuro, specifica infine Ribichini, si confonde spesso con la preghiera ed è un tutt’uno col volere delle divinità, che vengono infatti sempre coinvolte nello specifico rituale.