Beroso, un astronomo che professava il sacerdozio per conto del dio babilonese Marduk, scrisse un’opera in tre volumi, in lingua greca, che si chiamava Babyloniaká (Storia di Babilonia), dedicata al re Antioco Sotere I (280-261 a. C.). Probabilmente il sacerdote scrisse parte di questo testo all’inizio del III secolo a.C. (forse tra il 290 e il 288 a.C.).
Purtroppo quest’enciclopedia è andata perduta, ma ci è pervenuta, in modo parziale, grazie ai richiami di storici successivi, l’ultimo dei quali il bizantino Giorgio Sincello, vissuto nell’VIII secolo d.C., che a sua volta riportava gli scritti di Beroso già ripresi nei testi del collega Alessandro Poliistore, vissuto nella prima metà del I secolo a.C., che a quanto pare era soprattutto un compilatore, cioè trascriveva quel che altri avevano scritto in passato.
Altri frammenti provenienti dallo scritto originale di Beroso, furono inseriti da Apollodoro di Atene, Giuseppe Flavio e Eusebio di Cesarea nelle rispettive opere.
Anche Abideno, uno storico greco forse vissuto nel I secolo d.C., che realizzò una Storia dell’Assiria andata anch’essa perduta, in alcuni frammenti giunti a noi col tramite di storici successivi (Eusebio, Cirillo, Giorgio Sincello e Giuseppe Giusto Scaligero), si avvalse degli scritti di Beroso.
Il componimento di Beroso, forse ancora integro nel II secolo a.C., fu completamente trascurato dai copisti cristiani, intenzionati a velare la tradizione mesopotamica, come avvenne d’altronde anche con quella egiziana sviscerata dal contemporaneo Manetho – Manetone, la cui storia d’Egitto, l’Aegyptiaca, è andata parimenti perduta per quel che concerne il testo originario.
Beroso era un caldeo. Il termine Caldei significa ‘conoscitori delle stelle’ e anche per questo a quei tempi furono tacciati di essere ciarlatani perché, oltre a essere scribi, come sacerdoti si dedicavano all’astrologia e alla divinazione. Furono senz’altro dei precursori e si dibatte tuttora sul fatto se abbiano talora superato il sapere degli astronomi greci.
Alcune tavolette d’argilla ci inducono a pensare che l’astronomia e le altre scienze sviluppate dai Babilonesi fossero prerogativa della casta sacerdotale dei Caldei, proveniente dall’Arabia orientale o dalla Siria (in questo caso, si tenga conto che il rito caldeo prevedeva l’uso della lingua siriaca), che si stanziò nel meridione della Mesopotamia, soprattutto a Nippur, Ur e Uruk, all’incirca nel XIV secolo a.C.
I Caldei, fino allora sempre soggiogati agli Assiri, secondo l’assiriologo Giovanni Pettinato non vivevano solamente di pastorizia come si conviene a nomadi o seminomadi, ma controllavano evidentemente le vie commerciali e l’intero commercio del Golfo Persico e dell’Arabia meridionale. Anche l’archeologa Joan Louise Oates della Cambridge University, suggerisce che i Caldei, oltre ad avere grandi mandrie di cavalli e bovini, avevano il controllo degli itinerari meridionali, garantendo il regolare rifornimento di generi di lusso esotici per le classi più agiate.
Alla fine del VII secolo a.C., dopo l’assedio di Ninive e la cacciata degli Assiri, iniziò un periodo di trascrizioni più preciso, che fa pensare a un’ottimizzazione delle osservazioni, sistematiche e accurate, che scaturirono in un miglior computo del tempo. È attestata in quel frangente la prima suddivisione del cerchio in trecentosessanta gradi, determinata dalla corretta osservazione del moto del Sole. Anche i dati riferiti alle eclissi lunari sono più precisi ed è proprio dei Caldei la prima registrazione del fenomeno il 19 marzo 721 a.C., considerata tuttora affidabile.
Già con l’avvento di Nabonasser nel 747 a.C., la scienza astronomica aveva dato segno di profondi cambiamenti. Tolomeo riconobbe in seguito che si attestano a questo periodo le prime osservazioni valide. L’unico rimprovero mosso ai Caldei è che non giunsero mai a comprendere la geometria e la trigonometria.
La Tavola delle Nazioni, ricompresa nel decimo capitolo del Genesi, indica i Caldei come discendenti di Arpachshad, nipote di Noé. Poiché i Caldei non si convertirono mai al cristianesimo, in un documento redatto alla fine del I secolo d.C., la Didaché o Dottrina dei Dodici Apostoli, considerato comunque apocrifo, venne addirittura proibito ai cristiani di mescolarsi con loro, e il termine generico assunse da quel momento un carattere sostanzialmente sprezzante se non dispregiativo.
Verso la fine dell’VIII secolo d.C., i Caldei di Harran, poiché continuavano ad adorare i corpi celesti e rifiutavano la conversione all’islamismo, furono osteggiati anche dal califfo Al Ma’Mun. Per tale ragione, fu loro consigliato di professarsi sabei (un gruppo stanziato tra l’Anatolia meridionale e la Siria, praticante un credo ispirato al giudaismo), come riferisce il matematico Al-Khwarizmi nell’830, epoca in cui era al servizio del califfo, e lo storico Ibn Al-Nadim, settant’anni dopo. Infine, un’altra testimonianza contemporanea ai fatti appena narrati è quella lasciataci dallo storico Hamzah Al-Issfahani: “Ciò che oggi rimane dei caldei sono le due città di Harran e Rhoa, sappiamo che al tempo del Califfo Al Ma’Mun rinunciarono al loro nome e presero quello di sabei”.
Come scrive Pietro Laureano, architetto urbanista e consulente Unesco per le zone aride, la civiltà islamica e gli ecosistemi in pericolo, la setta pagana dei Sabei di Harran, operante già dal III millennio a.C., faceva risalire la sua tradizione mistica a Hermes e negli ultimi secoli del I millennio della nostra era, furono proprio loro a tradurre in arabo opere di filosofia, matematica e astronomia aramaiche, greche, persiane e siriane.
In tal modo parte del sapere fu conservato, dopo che, con l’editto di Giustiniano del 529 d.C., era stata sancita la soppressione della scienza e della filosofia antica, che portò anche alla distruzione della biblioteca di Alessandria.