Il padre fondatore della civiltà andina era At-ach-u-chu, Il Maestro di tutte le Cose, proveniente da est, da una terra distante, arrivato sulle rive del Titicaca dopo essere sopravvissuto a un diluvio. Fratello maggiore di cinque Viracochas o “Uomini bianchi”, è ricordato come Kon-Tiki-Viracocha o “Uomo Bianco della Schiuma del Mare”, le cui sembianze si ritrovano in alcune splendide ceramiche dei Moche, che li ritraggono a bordo di zattere, come uomini barbuti con elmi quadrati.
Qualche altro particolare sulle fattezze dei Viracochas, lo fornisce il cronista Cieze de Leon sulla scorta delle testimonianze di prima mano fornitegli dagli indigeni, quando racconta che il centro cerimoniale Kalasasaya, a Tiahuanaco, sarebbe stato costruito da gente con barba e pelle chiara, giunta in questi luoghi ancor prima degli Inca.
Viracocha trae origine dal “Dio dei Bastoni”, già oggetto di culto a Tiahuanaco, che si credeva fosse emerso dalle acque del Titicaca. Stando a un racconto mitologico, doveva trattarsi di un dio perfezionista se è vero che avrebbe creato e distrutto il genere umano dalle pietre per almeno quattro volte, probabilmente non pienamente soddisfatto dell’opera, in una ciclicità delle ere che rinveniamo in ogni parte del mondo.
È comunque difficile e fuorviante cercare di rimescolare tutti gli elementi insiti nei racconti andini per proporre una versione unica e coerente del mito, poiché le leggende provenienti da popoli diversi portano in sé elementi inventati di sana pianta per avvalorare una qualche discendenza diretta dalla divinità stessa.
Sicuramente, oltre che creatore, questa divinità assorbiva prerogative di civilizzatore poiché, prima di andarsene dal Perù “camminando” sul Pacifico, avrebbe distillato al genere umano, con estrema umiltà, perle di cultura e saggezza. Per questo è spesso indicato come un dio nomade, che terminata la sua opera, ricerca nuovi luoghi da visitare per proseguire negli insegnamenti.
Alla base del mito, come per Quetzalcoatl nella Mesoamerica, rimane la promessa, a distanza di tempo, di un possibile ritorno sui suoi passi, soprattutto in momenti di particolare disagio delle sue genti.
Viracocha è spesso assimilato al dio del sole Inti, talvolta immaginato come un uccello rapace che lo accompagna nelle sue peregrinazioni in terre lontane. È pur vero che nel pantheon sudamericano Viracocha delegava la sovranità a Inti (la cui controparte femminile è la Luna, chiamata Mama Quilla, sposa e sorella), da lui stesso creato, che nel mondo inca annovera molte più rappresentazioni rispetto al dio creatore.
La sovrapposizione tra le due divinità è ricorrente, in quanto Viracocha veniva venerato anche come dio del Sole e delle tempeste, con una corona che richiama sempre la luminosa stella del nostro sistema solare.
Nelle rappresentazioni è quasi sempre immortalato con in mano dei fulmini, da qui il richiamo alle tempeste, e con delle lacrime che scendono dagli occhi come fosse pioggia.
Dopo qualche decennio dall’invasione spagnola, i cronisti Pedro Cieza de León e Pedro Sarmiento de Gamboa interrogarono gli indigeni del Perù, riuscendo a ricostruire, per sommi capi e con tutta l’approssimazione possibile, le fattezze del dio così tanto venerato.
Viracocha venne quindi raccontato come un uomo bianco indossante una veste cinta alla vita, munito di un libro e un bastone. E proprio per questa ragione che i conquistadores sarebbero stati scambiati per Viracochas di ritorno.
Tra i tanti attributi riconosciuti a Viracocha, rimane il dubbio sulla pelle bianca del dio: non sono pochi coloro che pensano sia stata un’aggiunta degli spagnoli, anche per ragioni dettate dall’introduzione di un nuovo culto sconosciuto tra gli indigeni.
Le altre fattezze di Viracocha, invece, trovano ampie conferme anche nei racconti provenienti da altri popoli: per esempio la barba, pur posticcia che sia, viene citata negli Anales de Cuauhtitlan che descrivono l’aspetto di Quetzalcoatl in quel di Tula. Anche nelle ceramiche Moche la divinità viene rappresentata con la barba. Un enorme Viracocha con la barba è pure intagliato nelle rocce di Cerro Pinkuylluna a Ollantaytambo, in quella che è definita la valle sacra degli Incas.
Il dio pare quindi nascondere il viso con elementi che richiamano il mondo animale e che hanno valenza sciamanica: le piume o le penne per la barba, il copricapo con testa di giaguaro e i capelli alternati tra piume e serpenti, i pendenti con testa di serpente, le zanne di giaguaro come denti, i serpenti sul volto che a volte fuoriescono dagli occhi. Come se fosse una maschera antropomorfa e simbolica, necessaria forse per coprire lineamenti sgradevoli del viso.
La più antica immagine finora rinvenuta del primordiale Dio dei Bastoni, che a questo punto possiamo identificare in Viracocha, è quella effigiata in un frammento di vaso di zucca trovato più di una decina di anni fa nella necropoli della valle del Pativilca, nei pressi dell’odierna Barranca. La datazione del coccio con il metodo C-14 è stata stimata al 2250 a.C.
L’antropologo del Field Museum di Chicago Jonathan Haas, presentando la scoperta nel 2003, ha disquisito che “[…] come la croce cristiana, il Dio dei Bastoni è un’icona religiosa chiaramente riconoscibile […]. Questa sembra essere la più antica immagine religiosa finora identificata nelle Americhe. Indica che la religione organizzata ha avuto inizio nelle Ande più di mille anni prima di quanto si pensasse”.
La divinità è raffigurata, giusto per fare alcuni esempi, anche nella Stele Raimondi di Chavin de Huantar, sulla Porta del Sole di Tiahuanaco e su tessuti e ceramiche della cultura Huari.
Il Dio dei Bastoni può essere diventato, nel corso dei secoli, Illapa e Ai Apaec, rispettivamente dio dei tuoni e dei fulmini e dio della guerra, anche per identiche caratteristiche distintive. Le stesse considerazioni vanno fatte per il dio Pachacamac, venerato soprattutto sulla costa peruviana.
La divinità primigenia reca sovente in mano due bastoni, da qui l’antica denominazione, con l’estremità degli stessi che richiama le fattezze della testa di condor.
Ximena Jordan della Melbourne University ritiene che le antiche illustrazioni del Dio dei Bastoni rinvenute nel sito cileno di La Bajada, nel deserto di Atacama, a volte “[…] danno l’impressione di essere un veicolo culturale, il segno dell’inizio di una sorta di dominazione”.
Si tratta di geoglifi, petroglifi e pittogrammi presenti lungo il corso e il bacino superiore del fiume Loa, raffigurazioni rupestri risalenti anche al 300 d.C. i cui autori e gli stili pittorici variano di volta in volta.
Per Jordan gli autori delle figure, oltre a riferirsi al dio Viracocha, diffondevano l’identità culturale del gruppo che poi prevalse sulla gente del luogo.
Circa la diffusione di questo culto, l’archeologo Claudio Cavatrunci spiega che “[…] il Dio degli Scettri, il Dio Ghignante, il Dio Caimano dalla fertile valle della cordigliera presero la via della costa e si moltiplicarono nei centri cerimoniali del deserto”. Anche Cavatrunci come Jordan ammette che nelle rappresentazioni in bassorilievo di Tiahuanaco insistono “[…] immagini di divinità onnipossenti in cui si riconosce, come è il caso del Dio degli Scettri, la medesima tradizione che da Chavin si prolunga in Tiahuanaco, pur nella mutata realizzazione formale”.
È ancora Cavatrunci che, scrivendo dell’influenza della cultura di Tiahuanaco sulla regione cilena di Atacama, pone l’attenzione sull’intaglio del legno riferito alle tavolette utilizzate per il consumo di tabacco e allucinogeni: sulle impugnature delle tavolette lignee ricorre sovente anche l’iconografia del Dio dei Bastoni, ulteriore conferma del ruolo di questa divinità in contesti rituali eseguiti dagli sciamani.
Il ricercatore colombiano Miguel Rocha Vivas, partendo dal simbolismo sottostante, traccia per Viracocha, Quatzalcoatl e altre figure mitologiche un profilo da eroe archetipico.
Come sostiene l’antropologo Nicholas J. Saunders, le attività compiute dal dio Viracocha trovano spunto “[…] da un antico ciclo panandino dei miti della creazione. Alla base vi è l’idea di un’unità spirituale tra popolo, paesaggio, luoghi sacri, viaggi e la comparsa degli uomini congiuntamente al sorgere delle prime luci dell’alba”.
Come per altre divinità del passato, anche il culto del Dio dei Bastoni serviva a legittimare coloro che detenevano il potere, cioè la ristretta classe sacerdotale degli sciamani: stabilendo una connessione con tempi primordiali, era possibile costruire le genealogie necessarie per avvalorare un’origine divina dei regnanti.
Il richiamo alle forze spesso distruttive della natura, cui ogni dio s’ispirava, permetteva di legare questi elementi alla quotidianetà delle genti sottomesse, mediante rituali corroboranti per la vita sociale. Era d’altronde l’unica via percorribile per far accettare un dio primigenio venerato soprattutto dalla classe dominante, poiché il concetto di forza creatrice non era di facile comprensione per il popolo.
La successiva trasformazione in Viracocha, una divinità meno spigolosa rispetto al Dio dei Bastoni, permise agli sciamani di estendere gradualmente il potere in tutta l’area andina, assoggettando le diverse etnie che, seppur a malincuore e certamente dopo fatti d’armi, accettarono comunque il nuovo credo.