Archaeology, anthropology, and interstellar communication, editato da Douglas A. Vakoch nel 2014 per la NASA, disponibile on line, è un volume in lingua inglese che raccoglie notevoli contributi di esperti di ogni branca del sapere che dibattono sulla questione di possibili contatti con entità aliene.
Vakoch, laureato in religione comparata, storia e filosofia della scienza e psicologia clinica, professore presso il Dipartimento di Clinical Psychology al California Institute of Integral Studies, è direttore della composizione dei messaggi interstellari presso il SETI Institute di Mountain View e presidente del METI International (Messaging Extraterrestrial Intelligence) di San Francisco.
Presentando il volume, egli ragiona di segnali extraterrestri che viaggiano alla velocità della luce, che possono impiegare secoli o millenni per raggiungere i destinatari. Quindi la comunicazione interstellare può essere considerata una trasmissione a senso unico di informazioni, per di più se provengono da civiltà che potrebbero già essersi estinte.
Senza dimenticare che il più grande ostacolo alla ricezione di messaggi provenienti da altrove potrebbe anche essere la mancanza di una tecnologia, ancora da scoprire, in grado di ricevere questi segnali, riconoscerli come tali e infine decodificarli.
Ancor oggi, come scrive il giornalista Mike Pearl in The Day It Finally Happens del 2019, un libro in cui descrive gli scenari più catastrofici per il nostro futuro, i nostri strumenti per la ricerca di comunicazioni provenienti dall’universo sono praticamente gli stessi radiotelescopi che abbiamo visto nel film Contact.
Inoltre, nella peggiore delle ipotesi, i processi mentali alieni potrebbero essere diametralmente diversi dai nostri, così da impedire una qualsiasi forma di comunicazione con noi.
L’archeologia e l’antropologia, secondo l’intervento dei rispettivi autori, possono fornire parallelismi affascinanti. Per esempio l’antropologo Ben Finney e lo storico Jerry Bentley suggeriscono di trovare indizi per la decodifica di messaggi extraterrestri vagliando i tentativi, e soprattutto le difficoltà, nel tentare di decifrare le lingue morte dei nostri antenati.
Non sarà per niente semplice, poiché non avremo sicuramente a disposizione una Stele di Rosetta a facilitarci il compito. Forse si potrà comprendere il messaggio alieno nelle parti in cui è contenuto un qualche codice riconducibile alla matematica e all’astronomia, ma sarà certamente impossibile capire l’aspetto culturale che la civiltà aliena voleva comunicare. L’esempio più pregnante è senz’altro la decodifica dei geroglifici maya, possibile per la parte del messaggio contenente informazioni scientifiche, un po’ meno per l’idea che tali segni dovevano preservare per i posteri.
Secondo Finney e Bentley, può essere utile alla causa anche analizzare come sia avvenuta la trasmissione della conoscenza dall’antica Grecia all’Europa durante il Medioevo: infatti, nonostante il notevole lasso di tempo intercorso, le opere che si credevano irrimediabilmente perdute furono invece rinvenute grazie alle copie tradotte e conservate nei centri di studio islamici, soprattutto in Spagna e in Sicilia. Da lì, grazie alla sapienza proveniente da un passato remoto, nacque e si consolidò un periodo di fioritura culturale giustamente chiamato Rinascimento.
L’archeologa Kathryn E. Denning, professore associato presso il Dipartimento di Antropologia alla York University, membro del comitato SETI dell’International Academy of Astronautics, che collabora a progetti di ricerca con il NASA Astrobiology Institute, invece non è per niente convinta che le metodologie crittografiche e archeologiche, e in genere le discipline scientifiche (matematica, fisica e chimica) ma anche umanistiche, da sole, possano venire impiegate con successo nell’interpretazione di messaggi interstellari; tuttavia sostiene che possibili analogie linguistiche per comprendere un messaggio alieno vadano ricercate in quelle lingue terrestri ancora da decifrare, come il Rongorongo o il Lineare A: “I fallimenti indicano uno spazio in cui possiamo imparare, informazioni che dobbiamo acquisire, teorie che dobbiamo costruire e ipotesi che dobbiamo identificare e scartare”.
Ma per la decodifica, suggerisce Denning, occorrerà senz’altro anche l’aiuto dell’intelligenza artificiale.
Per l’archeologo Paul K. Wason, vicepresidente delle scienze della vita e della genetica presso la John Templeton Foundation, la sua branca potrebbe contribuire significatamente per determinare se il segnale dallo spazio vada inteso veramente come un mezzo di comunicazione e se davvero è una manifestazione proveniente da un’intelligenza extraterrestre.
Wason, sulla scorta della sua esperienza, aggiunge che potremmo certamente dare un senso generale all’ipotetico messaggio, anche se nell’impossibilità di comprendere il significato preciso, come avviene d’altronde per i problemi d’interpretazione dei sistemi simbolici, in cui spesso i segni si trovano a interagire, in una relazione arbitraria, con le idee che vogliono rappresentare.
Con quali risultati, è difficile a dirsi: “L’archeologia non è sempre riuscita nei suoi sforzi. Peggio ancora non è sempre possibile stabilire se i ricercatori siano sulla buona strada. Consideriamo l’arte rupestre paleolitica dell’Europa meridionale che è stata studiata per più di un secolo. Molte teorie sono state offerte in merito al significato di questi dipinti (cosa significano, perché sono stati dipinti, e così via), ma a questo punto non c’è accordo, e quindi la domanda è la seguente: quale speranza abbiamo di comunicare con extraterrestri se noi facciamo fatica a comprendere le immagini simboliche prodotte in Europa recentemente, dodicimila anni fa, dai membri della nostra stessa specie?”.
Come suggerito riguardo allo studio dell’arte rupestre, se riusciamo a riconoscere qualcosa come il prodotto del comportamento simbolico, abbiamo già imparato molto senza avere la minima idea di cosa significhino i simboli: sappiamo che esiste un individuo capace di attività intelligente di alto livello, che questo individuo stava cercando di comunicare e che questo individuo è quindi un essere sociale.
L’antropologo John Traphagan, dal canto suo, invita a cercare possibili anologie nelle difficoltà incontrate dalle culture occidentali nel comprendere la civiltà giapponese. Ma Traphagan avverte che occorre molta cautela, poiché le scarse informazioni desumibili da un criptico messaggio, porterebbe a rappresentare plausibilmente una civiltà extraterrestre, ma solamente dal nostro punto di vista, col rischio che queste valutazioni non riflettano accuratamente la vera natura degli extraterrestri.
L’antropologo Douglas Raybeck, professore emerito nel dipartimento di Antropologia all’Hamilton College e Visiting Lecturer in Anthropology all’Amherst College, sostiene invece che dovremmo considerare innanzitutto come diverse culture abbiano risposto al contatto con altre società terrestri tecnologicamente avanzate, soprattutto nelle relazioni coloniali intercorse tra occidentali e giapponesi, irochesi, cinesi, aztechi e maori: “Per molti secoli le società europee hanno avuto relativamente pochi vantaggi tecnologici rispetto alle società sviluppate orientali. Le culture asiatiche erano tecnologicamente superiori alle società occidentali sotto molti aspetti fino all’inizio del periodo moderno, quando gli europei iniziarono a eccellere nella costruzione navale, nella cartografia, navigazione, progettazione e fabbricazione di artiglieria. Accoppiando superiorità navale e militare con buona gestione, sostegno statale e spesso politiche spietate, l’Occidente è stato in grado di imporre la sua volontà su altre culture e di estrarre molta ricchezza”.
La volontà di una società indigena di assorbire elementi di un’altra civiltà può essere adattiva o insufficiente per sopravvivere culturalmente.
L’incontro con una civiltà extraterrestre, con ogni probabilità a noi superiore, in scenari che gli scienziati descrivono in genere positivi, porterà certamente un cambiamento sociale, ma occorrerà far tesoro di questi esempi per determinare il grado di flessibilità necessaria, perché l’apertura ad altre culture produce spesso una sottomissione per via dell’avversario tecnologicamente superiore. D’altronde, anche una posizione isolazionista può fallire, e qui Raybeck ricorda la riluttanza della Cina a trattare alla pari i paesi occidentali, che ha condotto a una grave sottovalutazione delle loro capacità. Raybeck suggerisce inoltre che il miglior modello al riguardo proviene dai Maori, la cui resistenza alle incursioni britanniche ha permesso agli indigeni il rispetto degli avversari, che infine hanno convenuto sulla conservazione delle evidenti diversità.
Dan Werthimer, già professore associato nei dipartimenti di ingegneria e fisica dell’Università statale di San Francisco, cofondatore e direttore del programma Seti della University of California a Berkeley, mette comunque in guardia su quelle che potrebbero essere le reali intenzioni di visitatori extraterrestri: “Potrebbero anche considerarci come delle formiche. Se ci capita tra i piedi una formica, la uccidiamo. Posso benissimo immaginare che se una civiltà più avanzata della nostra di un miliardo di anni vuole qualcosa che si trova sul nostro pianeta, viene a prendersela e basta, senza stare a pensare se siamo una specie intelligente o no”.
Intercettare e rispondere a messaggi intelligenti provenienti dallo spazio, potrebbe insomma indirizzare sul nostro pianeta alieni malintenzionati, interessati più che altro alle risorse di sostentamento di cui disponiamo. D’altronde abbiamo già sperimentato un comportamento del genere durante l’epoca del colonialismo, quando alcune nazioni più forti hanno letteralmente depredato quelle più deboli, sfruttandone le risorse e rendendo in qualche modo schiava la popolazione residente.