L’antico ordine religioso Confraternita della buona morte ha lasciato il segno anche nelle Marche, a Urbania. Nella Chiesa dei Morti (già Cappella Cola, dal nome del vadese Cola di Cecco che assieme alla moglie la eresse nel XIV secolo per poi lasciarla in eredità alla Confraternita della Misericordia) trovano posto dal 1833 quindici mummie, perfettamente conservate grazie a un procedimento di mummificazione naturale.
Una città, tre nomi Urbania, che nell’Alto Medioevo si chiamava Castel delle Ripe, nel 1277 venne distrutta dai Ghibellini e ricostruita più a valle, sette anni dopo, dal legato papale Guglielmo Durante. Da quel momento la città cinta da mura divenne Casteldurante. Dal 1424 passò sotto il dominio della signoria Montefeltro e Della Rovere di Urbino fino al 1631, infine il ducato fu donato allo Stato Pontificio. Cinque anni dopo il papa Urbano VII ne fece una Diocesi e la trasformò definitivamente in Urbania.
Uomini onesti Tutto ebbe inizio l’11 giugno 1567 quando a Casteldurante il sacerdote Giulio Timotei e altri confratelli promulgarono lo statuto della Confraternita della buona morte, con patrono San Giovanni decollato. L’11 aprile 1571 l’ordine fu sanzionato dal cardinal Giulio Feltrio Della Rovere: il manoscritto originale è ancora conservato nell’archivio della Curia Vescovile di Urbania. Per far parte dell’ordine era sufficiente essere uomini onesti, non avendo importanza alcuna ceto o credo. Gli appartenenti indossavano il rocchetto (una veste di lino bianco), un mantello nero (con una placca di rame argentato sbalzata con il teschio e le tibie incrociate) e un cappuccio calato sul volto: furono chiamati guercini perché costretti a orientarsi solamente attraverso i fori del cappuccio. Tra le tante attività il gruppo si occupava anche del trasporto gratuito dei cadaveri, forniva assistenza ai moribondi e ai giustiziati, procedeva alla registrazione dei defunti e alla corresponsione di elemosine ai meno abbienti. Per la sepoltura dei cadaveri fu individuato un terreno sul retro della cappella Cola, nelle adiacenze del convento di San Francesco.
Una formula magica All’inizio del XIX secolo, in piena epoca napoleonica, l’editto di Sant Cloud sancì, per motivi sanitari, la dislocazione dei cimiteri in aree extraurbane. E così furono riesumati anche i defunti di Casteldurante che, a distanza di quasi 250 anni, risultarono in perfette condizioni di conservazione, come se una rapida disidratazione del corpo, subita dopo la morte, avesse fatto evaporare l’acqua corporea evitando la decomposizione. Il priore dell’epoca, Vincenzo Piccini, pur intuendo l’importanza della scoperta ne attribuì erroneamente il merito a una formula magica in grado di mantenere i corpi intatti in eterno. Per tale ragione dedicò la sua vita a cercare di replicare quell’invidiabile stato di conservazione, arrivando a realizzare un unguento che, secondo le sue attese, avrebbe dovuto conservare alla stessa maniera anche le sue povere carni. Alla sua morte, nel 1832, lasciò precise istruzioni di come trattare il proprio cadavere, ma anche quello della moglie Maddalena Gatti e del figlio. Il preparato non era evidentemente quello giusto: oggi, tra le tante mummie esposte nel locale attiguo all’altare della chiesa di Urbania, ci sono anche tre scheletri, i loro.
Storie di vita quotidiana Collocati in piedi nelle bacheche di vetro, i corpi oggi in mostra presentano integra la struttura scheletrica, la pelle e gli organi. Ogni corpo ha una storia da raccontare. Le mummie, in alcuni casi, hanno anche un nome o qualche indicazione aggiuntiva riferita al passato terreno grazie alla documentazione meticolosamente archiviata negli anni. C’è l’unico fornaio del paese, tale Lombardelli detto Lunano (vissuto nel XVIII secolo), la donna deceduta che presenta segni di parto cesareo (pratica che all’epoca era eseguita solamente per salvare il nascituro), un ragazzo che trovò la morte durante una veglia danzante (per accoltellamento), un impiccato. Incredibile anche la vicenda di chi pare fosse stato sepolto vivo, in stato di morte apparente, risvegliatosi all’interno del sepolcro: lo sforzo di cercare l’aria è visibile dalla contrazione dei muscoli della coscia, del polpaccio e dalla rientranza della pancia; la morte per soffocamento ha gonfiato i vasi sanguigni fino a farli scoppiare. Mariano Muscinelli (morto nel 1844) e Pierantonio Macci (morto nel 1847) in vita erano canonici: il primo soffriva di diabete. I cadaveri di altre due donne presentano delle malformazioni mentre su altri corpi sono evidenti segni di artrite. Tra le probabili cause di decesso di alcuni sventurati anche la polmonite. Osservando con attenzione le mummie esposte, ci si accorgerà che alcune di esse hanno cranio o arti staccati dal tronco: infatti, quando i corpi furono disseppelliti, ne furono trovati anche incompleti e fu necessaria un’opera di assemblaggio utilizzando talora anche parti provenienti da più defunti.
Una muffa idrovara? Un processo naturale di mummificazione, simile a quello di Urbania, è possibile riscontrarlo anche in corpi tuttora esposti a Venzone (Ud), Ferentillo (Tr) Navelli e Goriano Valli (Aq), Borgo Cerreto di Spoleto (Pg). Negli anni Sessanta del secolo scorso un’equipe di antropologi e biologi statunitensi fornì una giustificazione scientifica all’incredibile fenomeno: i corpi si erano così conservati per via di una particolare muffa idrovara e antibiotica (hipha bombicina pers) presente nel terreno del cimitero di Urbania (e nelle tombe del duomo di Venzone), che succhiando gli umori del corpo era in grado di provocarne l’essiccazione. Ad analoghe conclusioni era comunque giunto nel 1829 anche il dottor F.M.Marcolini di Udine che, eseguendo un’autopsia, trovò il responsabile della mummificazione in un batterio. Fu il direttore del giardino botanico di Trieste, B.Biasoletto, a individuare la hypha bombicina, in parole povere una muffa parassita che, agendo in un ambiente ricco di solfati di calcio, vegetava nelle tombe e nel giro di un anno riusciva ad essiccare completamente le salme con cui veniva in contatto, rendendo la pelle pergamenacea (Sulle mummie di Venzone, memoria di F.M.Marcolini, pubblicato nel 1831). Ma la realtà è ben diversa, anche se a Urbania e a Venzone continuano, chissà perché, a chiamare in causa questa muffa. Arthur Aufderheide, paleopatologo dell’Università del Minnesota, autore del trattato Scientific study of mummies, pubblicato nel 2002 dalla Cambridge University Press, non ha dubbi in proposito, come pure nello specifico il collega Gino Fornaciari, docente di Storia della Medicina all’Università di Pisa: le particolari condizioni microclimatiche degli ambienti (un perfetto equilibrio di diversi elementi tra cui il freddo non rigido e la secchezza) sono le principali responsabili della rapida perdita dei liquidi e del disseccamento dei tessuti molli. In sostanza, in questi ambienti un fungo difficilmente riuscirebbe a sopravvivere.
Chiuso il giorno dei morti È certamente un museo macabro ma vale la pena visitarlo per ammirare questi corpi mummificati: sarete in buona compagnia perché ogni anno sono tredicimila i visitatori. La saletta che ospita le mummie è illuminata da un lampadario di ossa e teschi, giusto per restare in tema. Potete andare tutti i giorni nel periodo estivo, su prenotazione in quello invernale. Ricordate che il 2 novembre è chiuso.