L’articolo che vi propongo oggi è stato pubblicato sulla rivista Fenix (nr. 77 – marzo 2015) diretta da Adriano Forgione. Si tratta di un condensato di quanto scrissi nel 2012 nel libro ‘Il ritorno del Serpente Piumato, edito da Cerchio della Luna Editore. L’argomento mi è particolarmente caro, tanto che ne ho scritto anche in ‘Quelli che vennero prima’ e ‘Misteri delle civiltà precolombiane (Cerchio della Luna, rispettivamente 2015 e 2017). Come sempre, buona lettura e buona giornata.
L’immagine del serpente, associata alle divinità e ai luoghi di culto, ricorre in ogni parte del mondo e trova riscontro nei racconti mitologici. Nonostante il suo aspetto riluttante, il rettile è da sempre simbolo di vita per la sua capacità di rinnovarsi cambiando pelle. Non per niente due serpenti attorcigliati al Caduceo, che raffigurano le opposte correnti dell’Universo, rappresentano ancora oggi la medicina. Nell’antico Egitto, disposto attorno alla ruota solare alata in testa ai faraoni, il serpente era una forza creatrice e così doveva intendersi anche nel Medioevo, in cui l’immagine di un serpente coronato che dà alla luce un neonato era sinonimo di rivelazione e iniziazione.
Il significato maggiormente attribuito nel corso della storia a questo rettile è senza dubbio quello della sapienza e della conoscenza. È una divinità primordiale, che ha a che fare con l’universo e che talvolta assume le sembianze di un drago marino. L’elemento acquatico è sempre associato ai serpenti mitologici, che sono rappresentati in modi diversi: a spirale, nel segno dell’infinito, rigido, alato o rostrato. La forma della spirale fa pensare alle galassie, che solitamente così si presentano; d’altronde questo simbolo, come già scritto, in tempi antichi era associato sia alla creazione sia all’universo. La simbologia rigida, come pure quella alata e rostrata, è invece una prerogativa del dio considerato “civilizzatore”.
Gli dèi erano spesso identificati nel “popolo dei serpenti”, come narrano le cronache degli amerindi circa l’arrivo per mare dei colonizzatori dalla mitica Aztlan. In India si ricordano i serpentiformi Naga che crearono l’universo mentre i Fenici chiamavano il serpente Agathodemon e la parola, in realtà, deriva dall’unione di due termini greci col significato letterale di “genio buono”. In Egitto gli corrispondeva Kneph, associato alla fecondità, quindi simbolo primario del Nilo: considerandolo l’ispiratore del mondo, era rappresentato con il corpo di rettile, la testa dello sparviero e gli arti umani. Anche in Nepal si venerava una divinità distesa sopra dei rettili, chiamata Narayan “colui la cui casa è l’acqua”.
Il dio sumero Enlil, guarda caso, era considerato “Il serpente con gli occhi splendenti” e la sua consorte, la dea Ninlil, “la signora serpente”. Lo stesso padre di Mosè, tale Amram, aveva a che fare con i cosiddetti Vigilanti e uno di essi (l’altro era Michele, principe della luce) aveva l’aspetto di un serpente: si trattava del principe delle tenebre, Belial. Anche lui deve farci pensare a un rettile col suo viso allungato e sottile e gli occhi obliqui di colore giallo acceso. Infine, l’angelo caduto Lucifero appariva in tale veste nell’episodio della tentazione di biblica memoria, in cui Eva raccoglieva proprio il frutto proibito della conoscenza.
Acque brucianti
Anche Quetzalcoatl, nella sua rappresentazione di Serpente Piumato, doveva essere una divinità dispensatrice di conoscenza. Tuttavia, la simbologia legata a questo personaggio è ben più estesa di quel che sembri e vale la pena fare qualche riflessione. Il fatto che Quetzalcoatl si sacrifichi per dar vita all’umanità buttandosi nel fuoco, testimonia il nesso non casuale tra il fuoco e la vita con una sorte di resurrezione in mezzo.
È interessante scoprire che la farfalla, immortalata anche nei templi di Teotihuacan e in qualche modo assimilabile a Quetzalcoatl, rappresenta sia il fuoco sia l’anima. Da qui pare ovvio che il fuoco è l’elemento che libera l’anima dalla materia, una purificazione che racchiude in sé un simbolismo non da poco. Il fuoco è legato, in maniera ancestrale, all’elemento maschile mentre l’acqua a quello femminile: entrambi sono alla base dei miti della creazione e alla figura di Quetzalcoatl, che estirpa il peccato carnale con le “acque brucianti”, come raffigurato negli affreschi di Teotihuacan, con le maschere serpentiformi accanto alle conchiglie.
Furono certamente gli Olmechi a introdurre il culto del Serpente Piumato con attributi ben precisi quali il pettorale a sette punte (a forma di conchiglia) e il glifo di Venere, che combinati danno luogo a un simbolismo astronomico. A loro si devono le prime rappresentazioni della croce di Sant’Andrea (ad esempio quella sul monumento 52 di La Venta).
Nella “città dove nascono gli dèi” il Serpente Piumato è effigiato anche con il quinconce, i cinque punti nella croce. Il cinque era un numero sacro poiché associato alla divinità che operava la creazione scindendosi poi nei quattro punti cardinali. La croce di Quetzalcoatl ci conduce inevitabilmente al concetto gnostico che solo al centro, luogo di equilibrio, è possibile arrivare alla Verità. Se la croce rappresenta la materia, è il quinto punto, la particella divina, che permette l’unione tra materia e spirito, in sostanza la creazione.
Quasi tutte le religioni narrano della venuta sulla Terra, almeno una volta, del figlio di una divinità (nato da madre vergine), non solo per redimere i peccati del genere umano ma anche per rammentare agli uomini che esiste una vita dopo la morte. Queste divinità che si fanno uomini a ogni latitudine, per come l’hanno finora raccontata, ci appaiono incredibilmente simili tanto da escludere semplici coincidenze. Anche la dipartita delle divinità redentrici segue un certo canone, con la crocifissione su croci, paletti o alberi.
La croce è senz’altro il simbolo religioso più in uso fin dall’antichità. Nella cosmologia sumera, in Mesopotamia, simboleggiava il pianeta-dio Nibiru ma anche il dio della fertilità Dumuzi; una croce era l’emblema del Disco Alato degli Egizi e l’ankh ne era una chiara rappresentazione (è curioso costatare che a Calixtlahuaca trovi spazio un piccolo santuario cruciforme che corrisponde proprio a un ankh). Anche Odino era associato a una croce contenuta in un cerchio.
L’umanità ha sempre rivolto gli occhi al cielo, fin da tempi antichi, per scrutare il volere degli dèi. Non è eretico quindi sostenere che l’astronomia (anche nella sua veste corrotta di astrologia) è la prima scienza dell’umanità. Osservare il moto dei corpi celesti, prima del Sole e della Luna poi delle stelle e dei pianeti, appariva necessario per comprendere il passaggio delle stagioni in un mondo in cui l’agricoltura e la caccia erano decisivi per la sopravvivenza.
Quetzalcoatl era considerato il dio della stella del mattino con il titolo di Tlahuizcalpantecuhtli (“signore della stella dell’aurora”, la personificazione della stella del mattino, in sostanza il pianeta Venere quando appare al mattino), mentre il fratello gemello Xolotl (colui che aiutava i defunti nel loro viaggio e per tale ragione raffigurato come uno scheletro o come un uomo con la testa di cane) rappresentava l’aspetto demoniaco di Venere, stella della sera. Per comprendere perché Quetzacoatl era associato a questo pianeta, occorrerà rinfrescare le nostre conoscenze di astronomia.
Il moto del Sole è apparente perché è la Terra che si muove con la sua rotazione sull’asse e attorno al Sole. Per questa ragione il Sole sembra essere in movimento, sorgendo a Est e tramontando a Ovest e, per via della rivoluzione terrestre, l’astro sorge e tramonta ogni giorno in un punto diverso dell’orizzonte. Solo in due circostanze il Sole si “stabilizza”, sorgendo e tramontando nei giorni degli equinozi e compiendo il percorso più lungo e più corto nei giorni dei solstizi. Anche la Luna è stata attentamente osservata nell’antichità: con le sue fasi determinate dall’illuminazione del Sole, la porzione che osserviamo cambia ogni notte, arrivando anche a essere invisibile.
Per quel che riguarda i pianeti, questi appaiono come le stelle, con vari gradi di luminosità, e come stelle dovevano considerarli nel passato. Eppure, con un’osservazione minuziosa era possibile discernere la luce delle stelle da quella dei pianeti perché questi ultimi hanno un’intensità costante e sembrano “muoversi”. Qui entra in gioco l’astrologia perché queste “stelle” in movimento erano circoscritte alle dodici costellazioni dello zodiaco come fosse uno sfondo. Ecco perché Venere nella Mesoamerica era la “stella” più importante: dopo il Sole e la Luna, era ed è tuttora il più luminoso in cielo.
Quando Venere “sparisce”
Venere compie un’orbita, cioè si ritrova nella posizione di partenza, in 224,7 giorni terrestri. Pur tuttavia, dalla Terra questo pianeta si sposta fra le costellazioni impiegando 584 giorni per tornare al punto originale. Venere, fra l’altro, è visibile solamente dopo il tramonto a ovest e prima dell’alba a est, quasi all’orizzonte. Come dire che questo pianeta precede l’alba e segue il tramonto del Sole e in queste due circostanze è conosciuto anche come Stella del mattino per 246 giorni e come Stella della sera per i rimanenti 246 giorni.
Venere, dopo essere stato visibile come Stella della sera “sparisce” per 14 giorni perché offuscato dal Sole e, dopo essere stato visibile come Stella del mattino, “sparisce” di nuovo per 78 giorni per lo stesso motivo. Il numero di giorni che abbiamo indicato era conosciuto Le culture della Mesoamerica conoscevano bene il numero di giorni accennati.
Quetzalcoatl e Kukulkan, Aztechi e Maya: eppure il Serpente Piumato era invariabilmente associato al pianeta Venere. Maya e Aztechi avevano in uso due calendari, quello rituale divinatorio (Tzolkin) e quello civile (Haab). Il primo, 260 giorni, era suddiviso in 13 mesi di 20 giorni ciascuno e ognuno di questi stava a simboleggiare una divinità. Potrebbe avere a che fare con Venere, che appare nella sua nitidezza, al mattino e alla sera, in due cicli di nove mesi ciascuno. L’altro aveva 365 giorni ed era suddiviso in 18 mesi da 20 giorni ciascuno (con un ulteriore mese di 5 giorni, considerati nefasti) per un totale di 365 giorni. Era utilizzato soprattutto in agricoltura perché avvertiva dell’arrivo delle stagioni. I due calendari s’incrociavano ogni 52 anni e questa era l’occasione per sacralizzare il nuovo ciclo con rituali propiziatori affinché il mondo non finisse. L’osservazione dei cieli avveniva con strumenti semplici eppure i risultati furono notevoli. La sapienza astronomica dei popoli della Mesoamerica è racchiuso in uno dei Codici maya sopravvissuti alla distruzione dei Conquistadores.
Il Codice Dresda, redatto nell’XI secolo e originato da testi di almeno 400 anni prima, è probabilmente il più antico “libro” scritto dai nativi. Le tavole astronomiche contengono calcoli precisi sulle eclissi di sole e sulla rivoluzione sinodica di Venere. Le informazioni sul pianeta di Quetzalcoatl si condensano in sei pagine che riportano lo studio della posizione e dei cicli di Venere. La civiltà maya sviluppò un calendario che si basava anche sui movimenti di Venere che, quando visibile in cielo, era considerato propiziatorio per incoronare i governanti o per iniziare guerre di conquista. Il viaggio del Serpente Piumato nell’Inframondo rappresentava quindi la scomparsa e la successiva ricomparsa in cielo del luminoso pianeta. Il ciclo apparente di Venere corrisponde a circa 20 mesi, come riportato nel codice Dresda. Anche le steli e i monumenti ci rivelano una serie di numeri riferiti all’astronomia, mentre le città stesse erano sovente costruite come osservatori astronomici.
Venere, il pianeta più caldo del nostro sistema solare, è chiamato anche “pianeta gemello” perché assomiglia alla Terra: oltre che essere anch’esso un corpo roccioso, ha all’incirca stesse dimensioni e massa e una simile evoluzione. Se c’è qualcosa che differenzia Venere dalla Terra, è l’atmosfera e la relativa pressione atmosferica. Il pianeta, soggetto a un fortissimo effetto serra, è diventato così caldo che ha provocato la completa evaporazione dell’acqua, dissolta nello spazio dal vento solare. Se non ci fosse l’effetto serra, provocato dall’anidride carbonica nell’atmosfera, la temperatura sulla superficie di Venere potrebbe avvicinarsi a quella della Terra.
Nell’ultimo ventennio Venere è stato descritto grazie alle immagini e ai dati trasmessi dalle sonde Magellano e Venus Express: la superficie è cosparsa di crateri da impatto di meteoriti e si presenta quasi completamente ricoperto da pianure di origine vulcanica. Questo fa presumere che sia un pianeta geologicamente giovane, con attività vulcanica tuttora in atto, anche se non si comprende dove vada a finire la lava. Nonostante la carenza di informazioni, si ritiene che la struttura interna di Venere potrebbe essere simile a quella della Terra, con parte del nucleo in stato di liquidità. Miliardi di anni fa l’atmosfera di Venere poteva essere simile a quella terrestre, quindi con la presenza di acqua in superficie. È anche plausibile che Venere abbia avuto un suo satellite, che infine sarebbe entrato in collisione col pianeta.
Venere ha una rotazione retrograda lentissima: lì un giorno corrisponde a 243 giorni terrestri; il pianeta impiega 224,7 giorni terresti per compiere un’intera rivoluzione attorno al Sole. Come facevano gli ‘astronomi’ della Mesoamerica, con la sola osservazione visuale, a conoscere la rotazione di Venere se questo pianeta è circondato da una spessa coltre di nubi che ne oscurano la superficie?
Abbiamo ormai inteso che, a parte il Sole e la Luna, Venere è l’unico corpo celeste visibile a occhio nudo anche di giorno, ammesso che il cielo sia perfettamente pulito. Per questo il pianeta è conosciuto e descritto dai nostri antenati, non solo quelli della Mesoamerica. Ne scrivono i Babilonesi in alcune delle tavolette in caratteri cuneiformi (ad esempio nella “Tavola di Venere di Ammisaduqa”) e per loro si identificava nella dea Ishtar, mentre per i Sumeri si trattava di Inanna. In Egitto Venere assumeva denominazioni diverse, Tioumoutiri come stella del mattino e Ouaiti come stella della sera, così pure in Grecia (rispettivamente Phosphoros e Hesperos): solo in età Ellenistica ci si avvide che Venere era effettivamente un solo pianeta.
Il pianeta è menzionato come “il bambino orfano” nelle tradizioni orali dei Masai mentre gli aborigeni australiani Yolngu erano certi che l’apparire del pianeta in cielo permettesse di aprire un portale per comunicare con i defunti. Nei Veda Venere è definita “chiara, pura”, per diventare “la stella d’oro” in tutto l’Oriente. Per gli indiani d’America Lakota, Venere rappresenta l’ultima fase della vita, associata alla saggezza. Il pianeta s’identificava nella divinità Biblia per i Fenici, per poi diventare la dea greca Afrodite, con prerogative d’amore, di bellezza e di fertilità, figlia del dio del cielo Urano.
Una cultura itinerante
Alexander von Wuthenau, storico dell’arte e collezionista, per 50 anni documentò il ritrovamento di numerose terrecotte precolombiane, ognuna con diverse caratteristiche somatiche, a testimonianza che almeno qualcuno, in un remoto passato, era a conoscenza delle tipologie di esseri umani a ogni angolo del pianeta. Peccato che la collezione del tedesco sia priva di datazione, che nulla si sappia sulle circostanze del rinvenimento e, soprattutto, che la maggior parte dei manufatti sia stata giudicata falsa. Tuttavia, questo non significa che quanto ipotizzato dal tedesco sia da scartare a priori.
La teoria che gente proveniente dal Senegal possa aver raggiunto il Nuovo Mondo almeno un millennio prima di Cristo, proposta nella seconda metà del secolo scorso sempre da Wuthenau, potrà sembrare peregrina perché sostanzialmente priva di riscontri, ma merita almeno un accenno. Se non altro perché anche gli Aztechi credevano che gli Olmechi, chiamati “maestri letterati”, venissero dal mare e le cronache della conquista attestano la presenza di negri sul suolo americano. Non si può quindi accantonare tanto facilmente l’ipotesi che gente africana possa aver raggiunto il continente americano attraversando lo Stretto di Bering più di 10.000 anni fa.
La circostanza che molti degli individui negroidi raffigurati nella statuaria olmeca denotino un evidente strabismo, dovrebbe almeno accendere la scintilla del dubbio: e se davvero fossero giunti dall’Africa recando, perché no, un culto legato a Venere e allo strabismo? Ammesso e non concesso per evidente mancanza di prove, questa gente itinerante, certo non solo di razza africana, potrebbe aver lasciato alle spalle qualche altro debole indizio.
Il “gioco” della palla ricorda da vicino il Pachi che ritroviamo nelle Filippine ma anche in Siria mentre le statuine “baby face” ricordano una razza mongoloide, forse quella dei Cinesi, che guarda caso al pari degli Olmechi erano convinti che la giada fosse il simbolo dell’eternità. Bassorilievi e statuaria olmeca raffigurano pure esseri umani muniti di barba, con caratteristiche tipicamente caucasiche: primi Quetzalcoatl?
Echi dall’Oriente
Nel 499 d.C. il monaco buddista Hui-Shen ritornò in Cina raccontando di aver trascorso 40 anni nel Fusang, una località distante 10.000 chilometri, a est del Giappone. Effettivamente la corrente di Kuroshio, che attraversa il Pacifico da ovest a est, avrebbe permesso un simile viaggio sotto costa con il probabile attracco nelle vicinanze di Acapulco. Ma il dettagliato resoconto del religioso presenta troppe incongruenze: per la flora, per la fauna, ma anche per le osservate abitudini degli indigeni.
Con ogni probabilità il monaco raggiunse l’isola di Sakhalin, a nord est del Giappone. È inoltre difficile prendere per buone le supposte similitudini tra l’arte cinese e quella precolombiana di Teotihuacan e Tajin, pur avanzate dall’orientalista Robert Heine-Geldern e dall’archeologo Gordon Ekholm: infatti, le divergenze cronologiche sono troppo ampie e quei pochi artefatti rinvenuti nel Nuovo Mondo (le antiche monete e un ventaglio rinvenute a Cassiar nella Columbia Britannica nel 1882 e una ventina di pietre lavorate con un foro centrale nei pressi della penisola di Palos Verdes a sud di Los Angeles), avventatamente forniti come prove all’arrivo di cinesi in America nell’antichità, scontano purtroppo la mancanza di documentazione incontrovertibile e il ritrovamento in ambienti che non permettono indagini stratigrafiche.
Rispetto alla collezione di von Wuthenau, al racconto di Hui-Shen e alla teoria appena accennata, ben altro spessore ha il rinvenimento a La Venta, all’interno del Complesso A, della cosiddetta “offerta 4”, fatta nel 1942 dall’archeologo Matthew Stirling. Per alcuni si tratta del più importante ritrovamento mai avvenuto in area olmeca. Definita anche “il Presepe”, è una composizione di 16 statuine antropomorfe (in giadeite, serpentino e arenaria) disposte in piedi a semicerchio, tutte con lineamenti asiatici e crani allungati: gli occhi sono obliqui mentre le labbra sono spesse e incurvate, come quelle della statuaria colossale. La testa di queste statuine è visibilmente deformata, probabilmente mediante fasciature del cranio fin dalla tenera età.
I manufatti sono inoltre ricoperti con un pigmento rosso, solitamente utilizzato nelle sepolture. L’intera composizione era stata intenzionalmente sepolta a 60 centimetri di profondità, quindi ricoperta con uno strato di sabbia e diversi d’argilla: in superficie, al centro, c’erano anche tracce di un foro verticale in seguito richiuso, come se qualcuno avesse voluto verificare la presenza dell’offerta, e questo fa supporre che gli Olmechi avessero predisposto anche un segnale per localizzare quanto interrato.
Osservando questo straordinario manufatto, pare di assistere a una specie di convegno in cui una delle statuine (l’unica scolpita con l’arenaria) assiste al passaggio di altre 4 mentre le rimanenti rimangono passive sulla scena. A completare il quadro, alle spalle del personaggio principale, ci sono 6 colonnine in giadeite, forse asce oppure steli o colonne di un qualche edificio. Ancora oggi questa stupefacente galleria è giudicata come la fantasia dei sacerdoti di La Venta.
L’archeologa Betty J. Meggers e il linguista Mike Xu della Texas Christian University sono convinti che i glifi incisi sulle minuscole stele di giada di quel gruppo di individui orientaleggianti, conservata al Museo di Città del Messico, sono molto simili se non identici alla grafia cinese Shang risalente almeno al 1500 a.C., periodo che coincide con l’esplosione della civiltà madre nella Mesoamerica. Sono ancora voci fuori dal coro, in attesa che nuovi ritrovamenti e reinterpretazioni possano testimoniare ancor più la presenza itinerante del Serpente Piumato sul nostro pianeta.