Attraverso lo stretto Ancor oggi ci insegnano che gli antenati dei nativi americani sarebbero giunti dall’Asia via terra, attraverso lo stretto di Bering, sul finire dell’ultima era glaciale, quindi dal 12.000 a.C. in poi. Conforto a questa ipotesi verrebbe dal sito archeologico di Clovis (Nuovo Messico), indicato come luogo d’origine della cultura madre americana poiché nel 1932 si rinvennero manufatti ricavati dalla roccia, come dire le classiche punte di lancia bifacciali. Per lungo tempo si è ritenuto che la gente di questo sito provenisse dall’Alaska e fosse dedita alla caccia verso il 9500 a.C. Le prove a sostegno, per dirla tutta, sono invece scarsissime e si limitano quasi esclusivamente ai resti rinvenuti in Alaska e in Canada, databili tra il 13.000 a.C. e il 10.000 a.C.: le analisi hanno dimostrato che i manufatti ebbero origine in Siberia 30.000 anni fa. Nel resto del Nordamerica le tracce più antiche sono quelle della Pennsylvania (14.000 a.C.) e quelle della Florida (10.000 a.C.). In realtà i resti archeologici più antichi non sono quelli appena elencati, bensì altri rinvenuti in Centramerica e in Sudamerica. A Tlapacoya, un sito archeologico messicano nei pressi dell’omonimo vulcano, sono stati rinvenuti resti umani che potrebbero risalire anche a venticinque millenni fa e già questo ci dovrebbe convincere che la storia dei primi insediamenti nel Nuovo Mondo sarebbe da riscrivere completamente. La teoria, per com’era confezionata, già traballava notevolmente anche per i trentatré resti scheletrici rinvenuti all’estremità della penisola di Baja (Bassa California), le cui sembianze facciali evidenziavano sorprendenti correlazioni con popolazioni asiatiche (forse gli Ainu dal Giappone), e ciò implicava una discendenza comune con gli antenati del sud dell’Asia e della Costa del Pacifico mentre i teschi degli Amerindi, rinvenuti fino allora in altre località, erano assimilabili a popolazioni provenienti dal Nord dell’Asia.
La scoperta dell’impronta fossilizzata di un presunto piede umano, rinvenuta nel luglio 2003 in una cava abbandonata nei pressi del vulcano Cerro Toluquilla (a quasi 200 km a sud di Città del Messico) e risalente a 40.000 anni fa, poteva costituire il classico colpo di grazia se Paul Renne, del Berkeley Geochronology Center della California, non avesse aspramente contestato i risultati della ricerca, sostenendo che la traccia fossile non avrebbe nulla a che fare con gli esseri umani poiché rinvenuta su uno strato di ceneri vulcaniche che, utilizzando il metodo carbonio-14 tramite spettrometria di massa, risale a 1,3 milioni di anni fa. La convinzione imperante si è incrinata nuovamente in seguito agli studi di genetica e mutazioni del DNA, con Douglas Wallace in prima linea a riscrivere la storia dell’umanità: analizzando campioni provenienti da tutto il mondo, il ricercatore crede di poter attestare a 30.000 anni fa la prima migrazione nel Nuovo Continente. È pur vero che gli accademici più arditi non escludono che i migranti abbiano potuto raggiungere l’America forse addirittura 40.000 anni fa, “navigando” sullo stretto di Bering, ma questa affermazione è corretta solamente per ciò che concerne la datazione.
I focolari della discordia Nuove sorprendenti scoperte a Monte Verde (Cile), Pedra Furada e Pedra Pintada (Brasile), hanno fatto propendere per un’iniziale insediamento in meridione, anziché in Nord America, almeno qualche millennio prima del previsto. A Monte Verde, nella Patagonia cilena, dopo vent’anni di scavi diretti da Tom D.Dillehay dell’Università del Kentucky, è emersa una realtà inconfutabile: il sito era abitato fin dal 10.500 a.C., cioè almeno mille anni prima di Clovis. Ancor più sconvolgente è stato il rinvenimento di resti di focolari che, col metodo C-14, si fanno risalire al 31.000 a.C. Anche nel sito di Pedra Furada, ove sono emersi resti scheletrici contemporanei la cultura Clovis, sono stati trovati strumenti di pietra e pitture rupestri che hanno più di 32.000 anni. Qui sono state rinvenute tracce di carbone da legna che il metodo del carbonio 14 e della luminescenza ha attestato al 50.000 a.C.: l’archeologa Niede Guidon crede che questi antenati fossero giunti via mare a Piauì, sulle coste del Brasile, provenienti dall’Africa settentrionale. Le intuizioni della Guidon sono state avvalorate anche dai ricercatori Walter Neves e Danilo Bernardo con le analisi genetiche sui crani rinvenuti nel Piauì, che hanno determinato l’appartenenza all’Homo Sapiens arcaico, presente in Africa già 130.000 anni fa. In sostanza le scoperte, non solo archeologiche, che si sono succedute soprattutto negli ultimi anni, indicano una datazione notevolmente anteriore rispetto a quella dell’11000 a.C.: in piena era glaciale rimane attestata una nuova ondata migratoria dalla Siberia che interessò il continente americano, stavolta con passaggio sulla lingua di terra della Beringia, senza tralasciare la possibilità di successivi passaggi per mare anche attraverso l’oceano Pacifico di popolazioni provenienti dall’Asia e dalla Melanesia. è quindi assodato che le datazioni di quanto rinvenuto in Sudamerica sono notevolmente anteriori alle corrispondenti del Nordamerica e non si possono certo attribuire a una mera coincidenza. Se 32.000 anni fa i primi americani raggiunsero il Brasile attraverso la Beringia, occorrerà spiegare perché attraversarono tutto il Nordamerica senza lasciare traccia del loro passaggio e, soprattutto, conciliare il fatto che, al loro arrivo almeno 40.000 anni fa, la Siberia, all’epoca, non era ancora abitata. L’ipotesi più credibile, per quanto assurda, è dunque quella di un ceppo migrante che raggiunse il Sudamerica 35.000 anni fa, non certo proveniente dalla Beringia, bensì da Capo Horn, il punto più meridionale del Sudamerica. Gli indizi che supportano questa ipotesi sono evidenti.
Navigatori d’oltremare Nonostante la mancanza di prove archeologiche, anche alcuni navigatori polinesiani potrebbero aver raggiunto le coste meridionali del Nuovo Mondo poiché navigatori esperti in grado di compiere una simile traversata: chi sostiene questa possibilità spiega in questo modo la presenza della patata dolce, originaria del Sudamerica, nelle isole della Polinesia. Così suggeriscono d’altronde i recenti rinvenimenti, nelle californiane Channel Islands di Santa Rosa e San Miguel, di punte di lancia in pietra destinate alla caccia marina (che rivelano una lavorazione più raffinata rispetto a quelle di Clovis, di cui abbiamo fatto cenno) e manufatti a forma di mezzaluna, utilizzati per la caccia ravvicinata di volatili. Secondo l’antropologo Jon M. Erlandson dell’Università dell’Oregon e il collega Torben C. Rick della Southern Methodist University di Dallas, entrambi impegnati nel particolare studio, sul finire dell’ultima era glaciale il livello del mare lungo la California era settanta metri più basso rispetto a oggi, tanto da permetterne la navigazione. Poiché le Channel Islands distano più di dieci chilometri dalla costa, gli antichi americani dovevano necessariamente possedere imbarcazioni in grado di solcare quelle acque agitate. Che questi antenati provenissero da terre lontane lo pensa anche l’antropologo Todd Braje della Humboldt State University della California, partendo dal presupposto che le punte di lancia trovate nelle Channel Islands sono incredibilmente simili a manufatti rinvenuti in Giappone (in un sito risalente al 17.000 a.C.) e sulla penisola russa del Kamchatka (lungo le sponde di un fiume, databili al 15.000 a.C.). L’ipotesi è che quel periodo storico possa essere stato caratterizzato da ondate migratorie dal Giappone e dalla Russia in direzione del continente americano, non solo con i ponti di terra dello Stretto di Bering ma anche con la navigazione lungo le coste, e non solo.
Coloro che attraversavano le acque Veracruz è un importante attracco portuale all’interno del Golfo del Messico. Trovarsi qui significa essere nel luogo in cui arriva la Corrente del Golfo, che nasce dalla costa africana nordoccidentale e dalle Canarie. Secondo quanto scrive lo storico Sahagun, gli antenati dei Maya “vennero dal mare e approdarono vicino Veracruz, gli uomini saggi che avevano tutte le scritture, i libri, i dipinti”. Seguendo la magica corrente anche Cortez giunse in America, a nord di Veracruz, il 22 dicembre 1522, sbarcando in un tratto di costa che chiamò Villa de Santiesteban del Puerto, oggi Panuco. I Maya ricordano questo luogo come “Panco, il luogo dove coloro che attraversavano le acque arrivavano”. Insomma, la stessa rotta percorsa da Thor Heyerdahl, un biologo specializzato in antropologia delle isole del Pacifico, noto soprattutto per le sue esplorazioni. Heyerdahl, tra il 1947 e il 1970, organizzò incredibili spedizioni via mare, con imbarcazioni costruite seguendo i dettami della documentazione storica disponibile e con la collaborazione di abili indigeni. Queste imprese dimostrarono la possibilità (teorica) di attraversare l’Atlantico anche nell’antichità e quindi di navigare per mare aperto dall’Africa all’America, contrariamente a quel che si pensava fino allora.
Una magica corrente La Corrente del Golfo fa parte di un complesso di correnti che circolano permanentemente nell’Atlantico settentrionale e prende nome proprio dal Golfo del Messico perché da qui parte con una velocità di cinque nodi, lambisce la Florida, si dirige a Nord e dopo le isole Bahama si rinforza con la Corrente delle Antille, arrivando a cento chilometri di larghezza. Qui perde velocità, risale a Sud, doppia il Capo Hatteras e cambia direzione, dirigendosi a Nord-Est verso il Grande Banco di Terranova per cominciare l’attraversamento dell’Atlantico e puntare all’Europa. Prima di farlo, si spezza in più direzioni. Eccola dirigersi al Mar dei Sargassi e all’Isola delle Bermude per poi trasformarsi nella Corrente delle Antille. Nel Golfo di Guascogna le sue acque s’ingrossano e costeggiando l’Africa equatoriale raggiungono la costa brasiliana a Capo San Rocco. Ma gira anche a Nord verso le coste occidentali dell’Europa (Bretagna, Inghilterra e Norvegia) e quindi ripartire in direzione Ovest costeggiando la Groenlandia e perdersi nella gelida Corrente del Labrador; al largo della Francia scende a Sud, costeggia Portogallo, Marocco e Africa occidentale e riparte verso Ovest diventando la Corrente Nord-Atlantica equatoriale (è questa quella percorsa da Thor Heyerdahl). Si unisce infine alla corrente fredda delle Canarie e quando arrivano i venti Alisei questo “serpente” riparte, si muove a Ovest per fare il suo trionfale ingresso nel Golfo del Messico, ma solamente per andarsene di nuovo seguendo lo stesso tortuoso percorso. Con le innumerevoli possibilità che offre, la Corrente del Golfo potrebbe essere stata l’arma “segreta” d’intraprendenti navigatori per raggiungere le coste del Nuovo Mondo, molto prima di Cristoforo Colombo.