In cima agli ziqqurat Dal VI millennio a.C. in Mesopotamia, in quella che è comunemente conosciuta come ‘terra fra due fiumi’, iniziarono a lasciare tracce importanti civiltà che ancor oggi vanno ricordate, fra l’altro, per le incredibili conoscenze astronomiche. Ne abbiamo notizia dalle migliaia di tavolette d’argilla della biblioteca di Assurbanipal, rinvenute negli scavi di Ninive. Queste conoscenze, poi andate perdute, erano prerogativa della classe sacerdotale, e sulla scorta di precise datazioni calendariali era possibile indicare i giusti periodi per l’esecuzione dei lavori in agricoltura. Si pone l’inizio dell’astronomia mesopotamica al 4.000 a.C., quando s’intersecava confusamente con il culto religioso e si perdeva nell’astrologia. Questa ipotesi sugli albori è dettata unicamente dalle poche fonti scritte finora rinvenute, ma si può obiettivamente supporre che le origini risalgano a molto prima. L’abilità nell’osservare i cieli di questa gente influenzò sicuramente gli egizi e i greci. Si presume che i sacerdoti praticassero le loro osservazioni in cima alle ziqqurat, torri a gradoni dotate di templi dedicati alle divinità. Luoghi in cui erano conservate, trascritte sulla pietra, le informazioni di un sapere millenario che univa sapientemente l’astronomia con la religione e l’agricoltura, quasi fossero un connubio indissolubile.
Gli unici strumenti di cui potevano disporre, a supporto dell’osservazione visiva, erano quadranti solari, gnomoni e clessidre, forse qualche lente e l’astrolabio, per misurare l’altezza degli astri. Il calendario di questi sacerdoti, fondato sulle fasi lunari, contava dodici mesi di ventinove o trenta giorni ciascuno, mentre il giorno era di dodici ore (beru), corrispondenti alle nostre ventiquattro. L’ora era formata da sessanta minuti, una durata doppia rispetto all’odierna. Questa particolare suddivisione del tempo derivava dal sistema di numerazione sessagesimale. Gli astronomi della Mesopotamia dedicavano buona parte delle loro osservazioni a quelli che chiamavano ‘interpreti’, cioè i pianeti, così nominati perché si pensava rivelassero il volere degli dei. Nelle tavolette d’argilla sono registrati i moti dei cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio) allora visibili, lungo la “via del Sole”. In particolare Giove, che doveva svelare il destino riservato alla classe regnante.
Le case degli dèi Possiamo immaginare intere generazioni di questi sacerdoti, impegnati in millenarie osservazioni poi travasate diligentemente in libri considerati sacri, giungere infine a individuare le rivoluzioni dei pianeti in quella fascia di cielo chiamata Kaspu, suddivisa in dodici case, le ben note costellazioni dello zodiaco, introdotto nel VII secolo a.C. dai sacerdoti caldei, che per questo furono beffeggiati dai greci. Dividere la volta celeste in regioni, probabilmente per motivazioni sacre, serviva, e serve tuttora, anche per avere precisi riferimenti di quel che osserviamo in cielo. Pur essendo una ricostruzione prospettica che non corrisponde alla realtà, è comunque un metodo efficace che vede i moti apparenti dei pianeti, della Luna e del Sole, attraversare le costellazioni. La costellazione più importante era quella del Toro o “Toro del Cielo”, animale simboleggiante forza e potere, associata al paradiso sumero e ben rappresentata nelle fasi dell’Epopea di Gilgamesh. Alfredo Cattabiani spiega che “…era stata creata in Mesopotamia nel 4380 a.C., quando l’equinozio cadeva in questa porzione di cielo. Era dunque la costellazione che inaugurava allora l’anno zodiacale; sicché evocò il simbolo di un’energia primordiale e celeste, tant’è vero che in sumero la si chiamava GU.AN.NA, ‘toro del cielo’ oppure GU.SI.DI, ‘toro conduttore’: animale sacro alla divinità lunare oppure suo simbolo.” L’equinozio di cui scrive lo scrittore è quello di primavera e la costellazione è figurata dal gruppo di stelle Iadi (la testa) e Aldebaran (l’occhio); in origine c’erano anche le Pleiadi (il corno superiore), alcune delle quali visibili a occhio nudo, e la catena di stelle di Pi Orionis (il corno inferiore). Il solstizio d’estate era rappresentato dalla costellazione del Leone, la cui stella più luminosa, Regolo, era comunemente indicata dai babilonesi col nome di Sharru (il re). Lo Scorpione, il cui cuore era impersonato dalla luminosissima Antares, era l’animale collegato all’equinozio d’autunno e associato alla dea Ishhara. In origine, e almeno fino a quattromila anni fa, appartenevano a questa costellazione anche le stelle della Bilancia, che formavano le chele. Una quarta costellazione era direttamente collegata alle tre già dette: l’Acquario, considerato una divinità dispensatrice d’acqua (Enki, per i Sumeri, Ea per i Babilonesi) che costituiva l’ultimo punto cardinale, il solstizio d’inverno. In mitologia questo dio, immaginato con le sembianze antropomorfe di un pesce e di un uomo, è chi dispensò il sapere al genere umano: non a caso è ben rappresentato, con questo segno zodiacale, mentre versa acqua da due otri. Queste quattro costellazioni, certamente visibili in cielo tanto da essere considerate delle stelle, ben rappresentavano i cardini della volta celeste che appariva agli antichi attorno al 4.000 a.C., e per gli altri duemila anni a seguire, con i punti cardinali che corrispondevano approssimativamente al sorgere eliaco delle Pleiadi, di Regolo e di Antares. Gemelli, Vergine, Sagittario e Pesci erano segni che rappresentavano i punti cardinali in un periodo anteriore, compreso tra il 6.600 e il 4.400 a.C. Anch’essi erano associati ad altrettante divinità: i Gemelli rappresentavano Lugalgirra e Meslamta-Ea, difensori delle porte; la Vergine era la Madre Terra, dea della fertilità, il Sagittario (il centro della nostra Galassia) simboleggiava il dio della guerra Ninurta, infine i Pesci che vedevano la personificazione della dea del parto Anunito. Le ultime quattro costellazioni, introdotte solamente dal I millennio a.C. per completare lo zodiaco, sono l’Ariete (Dumuzi, dio della pastorizia), il Cancro (Nangar o Kushu, un animale marino), la Bilancia (introdotta dai Romani con lo smembramento di parte dello Scorpione, quindi non associata a nessuna divinità mesopotamica) e il Capricorno (Ea, essere antropomorfo).
L’uccisione di Tiamat I Sumeri immaginavano l’universo come un mare primordiale, ove non valevano concetti di tempo o di spazio. Il cielo era AN e l’inframondo KUR, mentre al centro c’era la Terra (KI), che galleggiava sul composto liquido APSU. Secondo la genesi dei Sumeri, la dea madre Nammu diede forma ad An e Ki, con le forze della natura chiamate Anunnaki. I Babilonesi, dal canto loro, credevano che l’universo si fosse formato dal conflitto divino in cui il dio Marduk avrebbe ucciso la dea Tiamat, smembrandola in quella che poi sarebbe divenuta la Terra e la volta celeste. Osservare il cielo, per entrambe queste civiltà, era una necessità perché considerato un modo diretto di comunicare con le divinità. Il diplomatico e orientalista Henry Creswicke Rawlinson, uno dei fondatori degli studi assiriologici, si disse convinto che i Babilonesi avessero un impareggiabile bagaglio astronomico, tanto da permettere loro di osservare i quattro principali satelliti di Giove e, forse, anche quelli di Saturno. Si deve a loro anche la scoperta del ciclo saros di circa diciotto anni, necessario perché si rinnovassero le eclissi solari e lunari. Insomma, una scienza che aveva una marcia in più rispetto a quella dei greci e, per certi versi, al pari dell’astronomia del XIX secolo.
Divinità stellari Il pantheon divino dei Sumeri, che come abbiamo visto era degnamente collocato nei cieli, è da noi ben conosciuto per le migliaia di tavolette cuneiformi, risalenti al III millennio a.C. rinvenute durante gli scavi archeologici in quella che fu un tempo la Mesopotamia; e quasi tutte narrano delle gesta di queste divinità. An era il dio del cielo e Nammu la dea dell’acqua e della creazione. Dalla loro unione era nato il dio saggio Enki, associato all’acqua. Fu proprio lui ad avere la brillante idea di creare l’essere umano, al fine di impiegarlo nel lavoro al posto degli altri dèi minori, creati da An e chiamati Annunaki. La gestione delle cose terrene era affidata ai figli di An: Enki, Enlil (signore del vento e della tempesta, con funzioni di reggente in nome del padre) e Inanna (collegata al cielo e alla terra, dea della guerra ma anche del parto e dell’attrazione erotica; generalmente rappresentata come divinità astrale di Venere). Tra gli altri dèi ricordiamo il marito di Inanna, Dumuzi (divinità della steppa), Baba di Lagash e Ninhursaga di Kish (dee madri), Nisaba (dea degli scribi), Nanshe (dea dei pesci e della magia), Ninisina (dea della guarigione), Ninurta (dio dell’agricoltura e della pioggia), Lahar (dea del bestiame) e Ashnan (dea dei cereali). Babilonesi e Assiri, in seguito, ereditarono queste credenze dei Sumeri, modificando il nome delle divinità nella lingua semitica. Ci fu comunque spazio per un nuovo dio, Marduk (Assar per gli Assiri), figlio del vecchio Ea (ora Enki), destinato a diventare la maggior divinità ai tempi di re Hammurabi. Marduk era sovente associato al Sole Shamash (che, come già scritto, non compariva nel pantheon sumero) anche se per alcune sue proprietà ricordava Ninurta.
Custodi del sapere Alcune tavolette d’argilla di quattromila anni fa ci inducono a pensare che l’astronomia e le altre scienze sviluppate dai babilonesi, fossero prerogativa della casta sacerdotale dei Caldei, una stirpe di lingua aramaica che, forse proveniente dall’Arabia, si stanziò nel meridione della Mesopotamia nel XIV secolo a.C. Il termine Caldei significa “conoscitori delle stelle” e, anche per questo, a quei tempi furono tacciati di essere ciarlatani perché, oltre ad essere scribi, come sacerdoti si dedicavano all’astrologia e alla divinazione. Furono senz’altro dei precursori e si dibatte tuttora sul fatto se abbiano talora superato il sapere degli astronomi greci. L’unico rimprovero mosso ai Caldei è che non giunsero mai a comprendere la geometria e la trigonometria. Alla fine del VII secolo a.C., dopo l’assedio di Nivine e la cacciata degli Assiri, iniziò un periodo di trascrizioni più preciso, che fa pensare a un’ottimizzazione delle osservazioni, sistematiche e accurate, che scaturirono in un miglior computo del tempo. A Babilonia, vent’anni prima, era salito al potere Nabopolassar, la cui dinastia neo-babilonese si estinse cent’anni dopo con la conquista della città da parte dei Persiani di Ciro il Grande. Già con l’avvento di Nabonasser nel 747 a.C., la scienza astronomica aveva dato segno di profondi cambiamenti. Tolomeo riconobbe in seguito che si attestano a questo periodo le primi osservazioni valide.
La porta di Dio Da una pietra chiamata Kudurru sappiamo che i Babilonesi vedevano la volta celeste divisa in tre porzioni: la strada di Enlil (parte settentrionale), la strada di Anu (fascia dello zodiaco) e la strada di Ea (parte meridionale). La prima testimonianza del cielo babilonese è contenuta nelle “Tre stelle ognuno” o sistema a trentasei stelle, trascritto su alcune tavolette databili alla fine del II millennio. Il calendario, con chiare valenze agricole, era diviso in dodici o tredici mesi e ognuno era contraddistinto da tre stelle, che potevano essere anche pianeti. L’anno iniziava con la prima luna nuova vicina all’equinozio di primavera. L’astronomo Agostino Galegati è dell’avviso che nei dati riportati in queste tavolette ci siano “…anche molti errori forse prodotti da errate trascrizioni da parte dei copisti o perché i dati erano riportati per scopi non astronomici.” Un altro documento notevole per la comprensione della sapienza astronomica raggiunta nella Terra fra due fiumi è la coppia di tavolette Mulapin, datate al 700 a.C., che pur contenendo le stesse stelle del precedente documento, è sicuramente più completo perché basato su accurate osservazioni. È qui che troviamo indicazione dei punti cardinali in cui si trovano il Sole e le congiunzioni dei pianeti con esso. Per la prima volta, è riportata una catalogazione delle costellazioni con precisi riferimenti anche a proposito dell’associazione con le divinità. Appartiene a questo periodo la nascita d’importanti costellazioni (alcune oggi scomparse), tra cui Ariete (Bracciante agricolo), Vergine (Solco), Orione (Pastore), Sagittario (Pabilsag) e Gemelli. L’introduzione dello zodiaco con dodici case, quello ancor oggi in uso, risale al 750 a.C. Dopo le conquiste di Alessandro Magno, nel IV secolo a.C., questo sapere ancestrale divenne l’astrologia, separandosi definitivamente dall’astronomia.
Kidinnu di Sippar Non per niente è passato alla storia (grazie alle testimonianze di Strabone e Plinio il vecchio) un astronomo e matematico caldeo, Kidinnu (o anche Kidenas/Cidèna), vissuto nel IV secolo a.C. e capo della scuola astronomica accadica di Sippar. Fu lui, infatti, a sviluppare un personale metodo per calcolare, con notevole approssimazione, il differente movimento del Sole, della Luna e di altri pianeti. Quel metodo, denominato ‘Sistema B’, fu poi utilizzato con successo anche dagli astronomi caldei. Per rendersi conto dei risultati eccezionali ottenuti da Kidinnu, sarà sufficiente ricordare che calcolò con precisione le eclissi lunari, determinò la lunghezza dell’anno in trecentosessantacinque giorni e sei ore e il moto lunare nel mese sinodico di ventinove giorni, dodici ore, quarantaquattro minuti e cinque secondi (con un errore di circa un secondo); è probabile che sia stato lui a introdurre, nel calendario babilonese, il ciclo Metonico di diciannove anni (ogni anno contava dodici mesi lunari, con altri sette mesi che venivano aggiunti nei diciannove anni successivi per controbilanciare la differenza tra l’anno solare e quello lunare). Prima di morire riuscì a comprendere che la diversa velocità del Sole sull’eclittica provocava la differenza delle stagioni, che l’anno sidereo era più lungo che quello tropico e si avvicinò alla comprensione del particolare meccanismo della precessione degli equinozi. Ipparco e Tolomeo furono sicuramente influenzati dagli studi di Kidinnu, che diedero spunto a future scoperte dei due astronomi greci. Sarà bene ricordare, a scanso di equivoci, che Kidinnu ottenne impressionanti risultati senza l’uso del telescopio e, soprattutto, senza l’ausilio della moderna strumentazione degli osservatori. Nonostante ciò, il grande astronomo babilonese poteva avvalersi di un impareggiabile archivio, che probabilmente conteneva il resoconto di osservazioni astronomiche effettuate in un lunghissimo periodo. Non deve, quindi, destare stupore che prima del metodo inventato da Kidinnu, nelle scuole astronomiche della Mesopotamia era in uso un sistema di calcolo ben più antico, i cui labili indizi videro la luce solamente nella seconda metà del XIX secolo, grazie ai notevoli progressi nella decifrazione del cuneiforme, che permise la comprensione di fondamentali documenti astronomici. Lo ricorda, ai lettori, l’astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli, citando gli studi (pubblicati in lingua tedesca) di Franz Xaver Kugler e Johann Nepomuk Strassmaier, che per primi individuarono elementi che riconducevano a un altro sistema di calcolo più antico che, fondato su periodi meno esatti, si avvaleva di procedimenti differenti per computare il tempo. Kugler lo definì giustamente “un capolavoro dell’aritmetica babilonese.”
Prevedere il rinnovamento L’astronomia babilonese ci stupisce anche per un altro particolare: lo studio dei fenomeni celesti teso alla scoperta di tutto ciò che è periodico, allo scopo di ridurlo a espressioni numeriche per prevedere il rinnovamento. Se determinare il calcolo della velocità apparente di Sole e Luna poteva essere relativamente semplice, ben diverso era farlo per gli altri cinque pianeti noti, anche solo a causa del loro corso irregolare lungo lo zodiaco: il moto, infatti, dopo essere stato retrogrado, si arrestava e quindi riprendeva normalmente. Il moto apparente dei pianeti pareva dipendere da due fattori periodici che si combinavano fra loro, la rivoluzione siderare (il movimento attorno allo zodiaco) e quella sinodica (la configurazione rispetto al Sole che produce congiunzioni e opposizioni). Le osservazioni prolungate degli astronomi della Mesopotamia, avevano permesso di comprendere che il ritorno di questi pianeti alla stessa stella era imputabile ai due fenomeni valutati assieme, tanto che l’intervallo era dovuto alla somma di un determinato numero di anni che s’intersecava con altrettante diverse rivoluzioni sinodiche. Quello che avevano scoperto gli astronomi erano le effemeridi perpetue dei pianeti, che permettevano di determinare in anticipo, per ogni ciclo, congiunzioni e opposizioni con il Sole, congiunzioni con le stelle principali, ingresso dei pianeti nei segni dello zodiaco, stazioni e retrogradazioni, levate e tramonti eliaci. Gli astrologi dell’antichità, sulla scorta di questi dati certi, potevano così avventurarsi nella lettura del futuro, immaginiamo a beneficio dei regnanti. O, all’origine di questi calcoli, c’era dell’altro?