Fino alla seconda metà del XIX secolo la cultura degli Olmechi era sconosciuta. Nemmeno i conquistadores ne avevano mai accennato nei loro resoconti. Le prime teste colossali furono rinvenute nel 1862 a Hueyapan in Veracruz; La Venta, uno dei siti più importanti, fu scoperto sessant’anni dopo e immediatamente attribuito ai Maya, come pure tutta la statuaria trovata in decine di altri siti.
Saremmo ancora qui a discuterne se non fosse per la perseveranza di un paio di archeologi, Miguel Covarrubias e Alfonso Caso, che costrinse infine il mondo accademico a considerare la possibilità che poteva essere esistita una civiltà vissuta agli albori nella Mesoamerica.
Quella che oggi è considerata una cultura madre, anche per le inoppugnabili datazioni rilasciate dalla tecnica del C14, continua a essere in qualche modo emarginata e per rendersene conto è sufficiente una visita al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico: l’arte maya e azteca occupa numerose sale mentre quella olmeca è relegata in un piccolo spazio.
Pur essendo trascorsi ormai alcuni decenni dalla consacrazione, le conoscenze che vantiamo riguardo questo popolo sono ancora scarse, nonostante l’importanza che viene indubbiamente attribuita a questa civiltà. L’impossibilità di far luce sulle origini, anche per una serie di notevoli difficoltà di cui scriveremo, relega gli Olmechi in una specie di limbo, quasi al pari dei Sumeri. Si certifica la loro importanza, e non poteva essere altrimenti, ma non si riesce (o non si vuole) andare oltre nella ricerca.
La questione si può riassumere con le parole dell’etnologo Jacques Soustelle: “Il loro ingresso nell’antichità autoctona ebbe l’effetto di un uragano devastatore, simile a quelli che s’abbattono qualche volta nel loro paese: gli schemi fissati crollarono, bisognò rivederli, ripensarli, non senza reticenze. Tutto quel panorama che si credeva familiare fu sconvolto.”
Gli Olmechi, la prima civiltà mesoamericana di cui si ha testimonianza, secondo gli archeologi sarebbero apparsi tra il 1800 e il 1500 a.C. Molti studiosi della civiltà maya concordano ormai sul fatto che il calendario maya, quello a noi più conosciuto, sia stato ideato dagli Olmechi nella città di Izapa, abitata da questi ultimi dal 1500 all’800 a.C. e quindi stabilmente dai Maya a partire dal 250 a.C.
L’etnologo Wilfried Westphal è convinto che l’evoluzione della scrittura e del calendario “…deve essere iniziata già nel medio preclassicismo, infatti le iscrizioni calendaristiche più antiche che si conoscano, risalenti all’epoca tarda del preclassico, sono già così perfezionate che devono essere il risultato di un più lungo processo evolutivo.”
I centri cerimoniali di San Lorenzo Tenochtitlán, La Venta, Tres Zapotes, Laguna de los Cerros e La Mojarra sono testimonianze, neanche tanto silenziose, del livello artistico e architettonico raggiunto dagli Olmechi, contraddistinto soprattutto dalle naturalistiche sculture statuarie e dagli stilizzati monili in giadeite.
Le enormi teste con evidenti caratteristiche negroidi, pesanti diverse tonnellate, erano intagliate da blocchi di basalto vulcanico provenienti da Tuxtla; il rinvenimento in questa località di una testa incompleta, suggerisce che la statuaria venisse prodotta sul posto prima di essere trasportata nei centri olmechi. Le incredibili sculture, finora ne sono state rinvenute una ventina, potrebbero rappresentare sovrani divinizzati o meglio ancora giocatori, poiché quel casco di cuoio che adorna i manufatti, può ricordare più una protezione che una corona.
Il nome di questa civiltà fu coniato in quegli anni e deriva dalla parola nahuatl “Olman” (terra della gomma), ma questo è solo uno dei tanti nomi con cui è possibile chiamare gli abitanti della zona del Golfo. Sarebbe forse più corretto usare il termine “Olmeca-uixtotin” che significa gente della gomma e dell’acqua salata, come suggerito da qualche studioso.
Il termine con cui sono ancora oggi chiamati, originato dalla lingua nahuatl, fu comunque affibbiato loro dagli Aztechi per via della zona geografica ove erano insediati e in cui si estraeva il lattice dalla Castilla elastica, un albero della gomma, da cui si realizzavano le palle usate nei primi campi per il “gioco” sacro. Si tratta di una specie di pallacanestro o pelota, praticato dagli indigeni in aree rettangolari a forma di doppia T, rinvenuti in quasi tutti i siti archeologici della Mesoamerica. La peculiarità del “gioco” chiamato Tlachtli (oggi ulama) consisteva nell’infilare una pesante palla, fabbricata col caucciù di una hevea selvatica, in un anello di pietra disposto sulla parte interna delle pareti presenti ai due lati, a un’altezza di otto metri. Non si potevano usare mani e piedi ma solamente gomiti, fianchi o ginocchia; inoltre la palla non doveva mai toccare terra e se questo avveniva, era da considerarsi un errore. Ogni formazione era composta da sette giocatori e il numero non è casuale perché rappresenta sia la dea Chicomecòatl (“sette serpenti”) sia la pianta del mais. La Dea “sette serpenti” ha incredibili connessioni con il culto di Iside e con la stella a sette punte (Eptagramma) conosciuta anche come stella di Venere, pregna di simbolismo legato al numero sette; in questo caso i sette serpenti potrebbero essere gli altrettanti pianeti allora conosciuti e osservati nella parte alta dello Zodiaco tra eclittica ed equatore celeste, definita ‘terre emerse’ da Giorgio De Santillana: con Venere che rappresentava la ‘porta per i sette pianeti’.
Il capo della squadra che perdeva (o che vinceva, dipende dai punti di vista degli studiosi) era decapitato. Probabilmente il gioco, che voleva in qualche modo raffigurare l’itinerario del Sole (così è identificata la palla nei codici nahua e d’altro canto i serpenti piumati attorcigliati scolpiti sugli anelli di pietra possono rappresentare il cielo), aveva una sua funzione religiosa nella quale, secondo gli indigeni, si poteva interpretare qual era il pensiero esternato dagli dei. Si può ipotizzare che le partite si disputassero in concomitanza di fenomeni celesti.
L’architetto e archeologo Federico A. Arborio Mella esprime tuttavia riserve sulle presunte regole del gioco: “Permane anche il mistero dei due anelli in pietra attraverso i quali, secondo quel che si legge, doveva passare la palla. Sfidiamo chiunque ad infilarvela usando solo ‘le anche e le ginocchia’; questi anelli poi sono situati ai lati del campo e non, come sarebbe logico, alle due estremità, e ad altezza diversa da stadio a stadio. Per cui, o erano semplici simboli di qualche dio o del Sole – come dice il Duran [Diego Duran] – o tutt’al più potevano esser adibiti a tiri da fermo per battere un fallo o convalidare una meta. È quindi più plausibile che si trattasse di un piacevole e funambolico gioco ‘alla brasiliana’ che comportava diversi tipi di partite da luogo a luogo, dato che i campi, pur nella generalizzata forma a I, sono assai diversi sia nella struttura sia nelle dimensioni.”
Si deve probabilmente agli Olmechi l’introduzione del sacrificio umano, uno degli elementi caratterizzanti anche di successive culture, e dobbiamo attribuire loro anche la prima forma di scrittura complessa, l’Istmiano della fase Epi-olmeca (caratterizzato da gruppi parlanti lingue mixe-zoque come gli Olmechi). I simboli, in parte decifrati dai glottologi, sono quelli incisi sulla statuetta di Tuxtla (III secolo a.C.), rinvenuta nel 1902, e sulla stele di basalto di quattro tonnellate rinvenuta nel 1986 a La Mojarra, vicino Veracruz: questi geroglifici costituiscono il tratto d’unione tra la sconosciuta scrittura del popolo del caucciù e quella dei Maya.
La pietra Cascajal, scoperta nel 1999 a Lomas de Tacamichapa, appena un chilometro di distanza dal sito di San Lorenzo, rimane finora una muta testimonianza di quella che potrebbe essere la scrittura olmeca. Il blocco, che è stato ritrovato assieme ad alcune statuette d’argilla (a cui il radiocarbonio ha restituito una datazione compresa tra il 1000 a.C. e l’800 a.C.), si fa apprezzare per i 62 pittogrammi incisi, che ricordano piante e animali, ma nulla hanno a che fare con la scrittura maya.
Come già accennato, si deve agli Olmechi anche la più antica registrazione calendariale riferita al “lungo conto”, con la stele C di Tres Zapotes scolpita presumibilmente nel 425 a.C. e non nel 31 a.C. (l’inizio del periodo potrebbe non essere identico a quello della cronologia maya classica, come ha fatto giustamente notare la studiosa Tatiana Proskouriakoff) e l’iscrizione su un pannello murale (erroneamente definita “Stele” 2) a Chiapa de Corzo che rimanda alla data del 36 a.C.
Secondo il parere del linguista e antropologo Munro Sterling Edmonson, tutti i calendari della Mesoamerica deriverebbero da quello degli Olmechi, che avrebbero sviluppato lo Tzolkin (un periodo ciclico di 260 giorni, con 20 simboli per il giorno e 13 numeri per il mese) fin dal VII secolo a.C. e una testimonianza in tal senso sarebbe l’ascia di Tapijulapa del 667 a.C. Quest’ascia in classico stile olmeco fu rinvenuta dagli archeologi nel 2008 alla base della collinetta “11” di Chiapa de Corzo (Chiapas), in un sedimento che risale al 700 a.C. e faceva parte di un’offerta di asce rituali sepolte davanti a un edificio astronomico d’ispirazione olmeca.
Il sito di Chiapa de Corzo, che si trova nelle vicinanze di Tuxtla Gutierrez, è uno di quei luoghi destinati a fare la storia della Mesoamerica poiché è un punto di riferimento cronologico per l’interpretazione dei primi sviluppi culturali, con tracce che raccontano la fine della civiltà olmeca e l’inizio di quella maya. Negli anni Settanta del secolo scorso la Nestlé ci costruì sopra una fabbrica per la produzione di latte, proprio al centro, sul tumulo principale. Oggi il sito è stato parzialmente recuperato (aperto al pubblico dal 2009) e una delle ultime scoperte è stata una tomba risalente al 2.700 a.C., quindi la più antica della Mesoamerica. Qui nel 1200 a.C. si sviluppò un insediamento Mixe-Zoque denotante forti legami con gli Olmechi delle regioni costiere, soprattutto con La Venta.
Anche il celebre culto del Serpente Piumato pare nascere con gli Olmechi. Le prime raffigurazioni di serpenti piumati compaiono infatti con la cultura madre a metà del II millennio a.C., anche se appena abbozzate. Secondo alcuni studiosi le effigi olmeche di serpenti a sonagli dotati di cresta, qualche volta col corpo piumato, non depongono a favore di un vero e proprio culto precursore di Quetzalcoatl. Poiché le immagini di serpente sono piuttosto rare, si è propensi a considerarle la rappresentazione di una divinità minore.
Pur non avendo lasciato tracce scritte, non c’è dubbio che la civiltà olmeca, anche sotto il profilo prettamente religioso, abbia influenzato considerevolmente le credenze dei popoli a venire. Per esempio, molte antiche divinità olmeche entreranno di prepotenza nel pantheon maya: il dio giaguaro, quello della pioggia, del Sole, del mais, per finire con il serpente alato che non può non ricordare Kukulkàn. Ecco perché l’iconografia presente sulle stele olmeche, più che altro esseri antropomorfi, va interpretata per quello che è, cioè le prime rappresentazioni di divinità della Mesoamerica, con una forte predominanza degli elementi della natura.
Non può essere una semplice coincidenza che nel centro cerimoniale olmeco di La Venta, su quello che era un isolotto nella zona paludosa del Tabasco, si siano rinvenute alcune tracce riconducibili al culto del Serpente Piumato. Il sito, che divenne importante con la decadenza di San Lorenzo all’inizio del I millennio a.C., fu abbandonato nel 400 a.C. Gran parte dell’area è stata distrutta a seguito della costruzione di una raffineria di petrolio. I primi scavi risalgono al 1941 ed è attestata a quell’epoca la decisione di spostare molti manufatti nel parco di Villahermosa.
Le pietre di basalto, necessarie non solo per la costruzione delle colossali teste ma anche per stele e altari, arrivavano da Tuxtla, alcune da Punta Roca Partida e da Cerro Cintepec, località distanti in linea d’aria tra ottanta e centotrenta chilometri. A parte le quattro teste colossali (che potrebbero essere state realizzate nell’850 a.C. e quindi dopo quelle di San Lorenzo) e la Grande Piramide, nella zona mortuaria denominata Complesso A sono stati rinvenuti anche tre mosaici rettangolari (uno dei quali potrebbe rappresentare il Dragone olmeco) in blocchi di serpentino.
Qui, come dicevamo, è stato ritrovato il primo manufatto che può testimoniare la devozione al Serpente Piumato: si tratta della Stele 19, che effigia un essere a “bordo” di un serpente a sonagli in fase di attacco, e anche se fosse un drago o un serpente acquatico non cambierebbe il senso delle cose. La nostra attenzione deve ricadere anche sulla Stele 13 perché, oltre contenere uno dei più antichi testi della Mesoamerica, reca impresso un uomo barbuto con lineamenti mediorientali mentre cammina (da qui il nome “El Caminante”) e la sua identificazione con Quetzalcoatl o con un suo adepto, seppur forzata, si può fare.
Le credenze degli Olmechi in un quadro politeistico pregnante con gli elementi della natura, saranno le stesse di altri popoli: fattezze di giaguaro per descrivere le divinità della creazione, di serpente alato per quelle civilizzatrici, e poi la solita schiera di extraumani a rappresentare Sole, pioggia, mais e via dicendo.
L’influenza olmeca arrivò dappertutto, perfino a El Salvador e in Guatemala: le opere d’arte rinvenute, denotanti l’inconfondibile stile, sono forse giunte fin lì per la radicalizzazione della rete commerciale olmeca, ma non si può escludere una penetrazione del territorio da parte di abili scultori, richiesti in ogni dove.
Che i Maya abbiano preso generalmente ispirazione dagli Olmechi, è anche il pensiero di Linda Schele, quando afferma che “…la reazione delle popolazioni maya più meridionali alla scesa degli olmechi [nel medio preclassico, 900-300 a.C.] si può intravedere in questa rapida adozione delle innovazioni introdotte dagli olmechi nell’iconografia simbolica e nelle istituzioni sociali. I maya che vivevano nelle valli montuose dell’Honduras occidentale, del Guatemala e di El Salvador, cominciarono a organizzare la loro società, come gli olmechi, in base a principi più gerarchici, come si può dedurre dal contenuto delle tombe ritrovate in vari siti.”
È tuttora fonte di dibattito la ragione che indusse gli Olmechi a spostarsi sul territorio abbandonando progressivamente i propri centri cerimoniali, come fecero in seguito anche i Maya, e non possiamo credere che ciò sia dipeso esclusivamente da improvvisi cambiamenti climatici. Destano interrogativi anche le mutilazioni e l’interramento dei monumenti ogni qualvolta avveniva un trasferimento.
Qualcuno suggerisce l’ipotesi che questa gente, conscia che la propria epoca stava giungendo alla fine, mutilò e quindi sotterrò le teste prima di abbandonare i luoghi ove si erano stanziati. Quel che successe a San Lorenzo nel 950 a.C. ricorda quanto accadde poi con l’abbandono di Teotihuacan.
Anche La Venta, certamente il più importante centro, fu interessata cinquecento anni dopo da migrazioni verso Tres Zapotes: qui l’influenza olmeca pare affievolirsi, tanto che gli studiosi preferiscono parlare di un periodo Epi-olmeco, le cui caratteristiche ritroviamo anche a Izapa, il più grande sito archeologico del Chiapas. La città raggiunse l’apogeo nel 600 a.C. (conservando il primato per altri cinquecento anni) ma i primi insediamenti, secondo alcuni, potrebbero essere attestati al 1500 a.C., al pari di San Lorenzo Tenochtitlan e La Venta.
Il sito rappresenta un punto d’unione tra la cultura degli Olmechi e quella dei Maya, poiché qui sono state rinvenute rappresentazioni di giaguari, bocche umane e croci, elementi che poi si ritroveranno nell’arte classica dei Maya; pur tuttavia, nei manufatti non si riscontrano le caratteristiche proprie dello stile Epi-olmeco. Questo è l’unico sito che non fu abbandonato, probabilmente perché il decadimento della cultura olmeca aveva ormai raggiunto il suo apice.
I segni di un lento e inesorabile declino, fattor comune di tante civiltà del passato, andavano di pari passo con l’affermazione di Zapotechi e Maya.