Che i nuraghi siano orientati astronomicamente è un fatto acquisito. Rimane semmai da capire quando l’antica popolazione che li eresse cominciò a interessarsi d’astronomia.
È Juan Antonio Belmonte a togliere le castagne dal fuoco, con il contributo dello studioso locale Mauro Peppino Zedda. Le migliaia di strutture sepolcrali dell’era neolitica, IV e III millennio a.C., attribuite alla cultura Ozieri (la prima cultura sarda veniva probabilmente dal mare: gente pacifica che dal 3.200 a.C. introdusse il culto del Sole, della Luna, del Toro e della Dea Madre, con rituali simili per certi versi a quelli di Creta, delle isole Cicladi e di Malta; il vasellame della cultura Ozieri, d’altronde, fa il verso a quello rinvenuto nelle isole Cicladi e a Creta) sono riccamente decorate con rilievi scolpiti o incisioni e le immagini più ricorrenti, spesso stilizzate, riproducono spirali e corna di toro.
Queste tombe scavate nella roccia sono le Domus de Janas (letteralmente case delle fate), a volte delle vere necropoli con anticamere, nicchie e celle per ospitare più sepolture.
Per i due studiosi quasi trecento tombe rivelano orientamenti non casuali in direzione Sud (al sorgere della Luna), Est (costellazione della Croce/Centauro, in special modo Alfa Centauri, la stella più luminosa di questa costellazione, ma anche quella più luminosa di notte, a parte Sirio e Canopo; curioso che Alpha Centauri non si possa vedere dalla Sardegna poiché inizia a essere visibile a sud del 29º parallelo nord, corrispondente all’Egitto da Giza, al Texas, alla Penisola Arabica, all’India settentrionale e alla Cina meridionale) e al solstizio d’inverno: in tutto il bacino del Mediterraneo rinveniamo simili sepolcri, soprattutto in Sicilia, dove quasi un centinaio mostra simili orientamenti al Sud e al solstizio d’inverno.
Altrettanto si potrebbe proporre per le tombe tunisine Hawanat, anche se la datazione più tarda (I° millennio a.C.) esclude contaminazioni tra civiltà. Ancora tutta da chiarire è invece la somiglianza delle tombe sarde con quelle etrusche, seppur di epoca più recente.
Il picco a Est del diagramma degli azimut, fra l’altro, fornisce declinazioni conciliabili con le Pleiadi e le Iadi della costellazione del Toro. Può essere così spiegata la frequenza delle incisioni taurine negli ipogei, in qualche modo assimilabili a questo importante asterismo, che secondo l’archeologo Giovanni Lilliu “…testimoniano il culto di una divinità principio di rigenerazione per i defunti in quanto simbolo della vita e della potenza fecondatrice.”
Desta perplessità che, almeno apparentemente, questa gente avesse più cura della morte che della vita, poiché i piccoli centri rurali finora scavati hanno restituito capanne in pietra con una probabile copertura di legno.
La religiosità della cultura Ozieri richiama inevitabilmente alla mente quella di Malta, ove il culto della fertilità, rappresentato dalla madre celeste Dea Madre, era ugualmente sviluppato, ben evidenziato dalla statuaria rinvenuta (oggi conservata, in originale, al Museo Archeologico Nazionale di La Valletta; la maggior parte dei reperti provengono dal complesso di Tarxien dove, al pari di Haġar Qim, sono state rinvenute anche decorazioni scolpite a bassorilievo).
È il segno di una cultura itinerante che ha investito tutto il Mediterraneo dal VI millennio a.C., che ancora oggi stenta a trovare la giusta attenzione nelle pagine dei libri di testo.
Il culto riservato alla figura maschile del Toro, sacralità sempre associata alla fecondità, induce il parallelismo tra il simbolismo materno della Dea Madre e della Luna con il simbolismo paterno del Toro e del Sole. L’elemento femminile è allora ben raffigurato dai sepolcri sotterranei (la morte, l’oscurità della Luna e l’inframondo), mentre quello maschile è correttamente riprodotto in superficie (la vita, la luce del Sole e le pietre verticali appuntite a valenza fallica, come le corna del toro), in un connubio inscindibile che può essere sintetizzato nell’equilibrio tra la vita e la morte e nella rinascita stellare, giustamente rappresentata dal segno della spirale. Una simbologia fra l’altro ricorrente non solo nell’area del Mediterraneo, che per Mircea Eliade incarna il ciclo cosmico infinito di nascita, morte e rinascita.
Nell’isola di Malta e di Gozo, pur in mancanza di documenti scritti, c’è il primo esempio di cultura megalitica del Mediterraneo, risalente al V millennio a.C. Il più antico insediamento umano documentato di Malta è quello testimoniato dai reperti della grotta di Ghar Dalam risalenti al 5200 a.C.
La colonizzazione dell’isola sarebbe avvenuta per mezzo di agricoltori provenienti dalla Sicilia (all’epoca forse collegata con una sottile striscia di terra a Gozo); l’ipotesi, pur non definitiva, si poggia sulla ceramica rinvenuta a Stentinello, simile alla maltese.
Generalmente questi templi, con accesso da uno stretto corridoio centrale a lastroni, si snodano in diversi (da tre a sei) ambienti di forma espansa e tondeggiante, con un vano centrale a nicchia allineato con l’ingresso. Tutt’attorno insiste una possente muratura, con numerose lastre di calcare che arrivano a pesare anche venti tonnellate.
I megaliti utilizzati presentano dimensioni diverse e perlopiù sono lavorati e posati con perizia. Probabilmente anche la copertura era realizzata in pietra, con lastre orizzontali appoggiate su travi adagiate su megaliti sporgenti, ma non è esclusa la possibilità di massi più piccoli collocati a strati fino in cima, oppure travi in legno con manto erboso.
All’interno dei templi, da considerare luoghi sacri, vi erano sicuramente degli altari di pietra a fungo, come desumibile dai resti rinvenuti. Insomma, questi templi sembrano modellati come il generoso corpo della Dea Madre, quasi che i misteriosi costruttori avessero voluto creare un ambiente in cui si potesse immaginare di penetrare nel ventre della divinità, purificarsi con il silenzio e la preghiera, quindi uscirne per ritrovare la stessa luce del Sole che già si scorgeva all’interno.
Il sito di Skorba, le cui fasi costruttive iniziarono già nel V millennio a.C., segna l’inizio di un’attività frenetica della popolazione che vedrà il culmine tra la metà del IV millennio a.C. (Ggantija a Gozo) e la metà del millennio successivo (“Periodo dei Templi”), con la costruzione del tempio di Tarxien e l’ipogeo di Hal Saflieni, scavato su tre piani e profondo fino a dieci metri. Al suo interno, nel pozzo sacro dedicato alla Grande Madre, furono trovati settemila scheletri, di cui una decina con crani dolicocefali: la pratica dell’allungamento della parte posteriore della scatola cranica mediante tecniche di bendaggio, nel mondo antico era in uso un po’ dappertutto.
Brien Foerster e David Hatcher Childress (“The anigma of cranial deformation”, 2012) suggeriscono che almeno uno dei crani dolicocefali rinvenuti a Malta sia però appartenuto a una razza estinta, poiché mancante della sutura mediana. Alle stesse conclusioni erano già arrivati Adriano Forgione e Vittorio di Cesare in un articolo pubblicato nel 2001 sul n. 6 del mensile Hera magazine, in cui riferivano che la mancanza della saldatura “…è stato considerato impossibile da medici e anatomisti ai quali ci siamo rivolti, mancando (fino a prova contraria) analoghi casi patologici nella letteratura medica internazionale. Si tratta di una caratteristica che rafforza l’anomalia di questo reperto e che ebbe il risultato di provocare un allungamento naturale del cranio nella zona occipitale (non dovuto quindi a bende o tavole impiegate nelle civiltà pre-colombiane). Crediamo che il ritrovamento di questo cranio e dei suoi simili ad Hal Saflieni non sia casuale.”
Ma anche gli altri crani allungati esaminati dai due ricercatori in quella circostanza, tutti provenienti dall’ipogeo maltese, presentavano “…una pronunciata dolicocefalia naturale, quindi si può, senza timore di smentita, trattarsi della caratteristica distintiva di una vera e propria razza, diversa rispetto alle popolazioni autoctone di Malta e Gozo.”
Prove indiziarie che permettono di ipotizzare l’esistenza di un genere di homo che avrebbe vissuto fino a qualche migliaio di anni fa. E nel 2010 gli antropologi Johannes Krause e Bence Viola dell’Istituto Max Planck di Antropologia Evolutiva di Lipsia, hanno presentato una ricerca genetica che prova l’esistenza di un ominide finora sconosciuto, ribattezzato di Denisova perché i resti fossili di una falange del mignolo risalenti a 40.000 anni fa sono stati trovati in questa grotta della Siberia.
Dopo aver estratto e sequenziato il DNA nucleare, è stato possibile accertare che la nuova specie si differenziò dalle altre 350.000 anni fa e visse nell’Asia sud orientale, dove probabilmente si incrociò sia con il Neandertal sia con il nostro antenato, perché in quel periodo entrambi vivevano in quella zona.
Un ominide che stando alle comparazioni genetiche potrebbe aver lasciato dei discendenti in Papua Nuova Guinea, la parte orientale dell’isola della Nuova Guinea nell’oceano Pacifico. Il genetista Brenna Henn della Stanford University aveva già sostenuto in passato la possibilità di incroci tra specie diverse e l’uomo di Denisova costituisce la prima testimonianza alle sue asserzioni, sempre osteggiate e mai prese in considerazione dai genetisti.
La specie Denisova è un intruso che rischia di mettere in discussione le certezze a cui eravamo finora abituati. Il professor Terence Brown della Facolta di Scienze della Vita dell’University of Manchester è infatti convinto che “…si sarà obbligati a rivedere la storia della recente colonizzazione umana dell’Eurasia.”
Riprendendo il discorso sulla pratica della dolicocefalia, conveniamo che doveva conferire un aspetto serpentiforme che deve almeno far riflettere sulle possibili connessioni tra questa, il culto della Dea Madre e il significato da attribuire alla simbologia del serpente: di quest’ultima abbiamo già discusso in un altro articolo.
In quest’analisi che forse si spinge oltre la nostra comprensione, non va mai dimenticato l’uomo di Neandertal per alcune evidenti analogie tra il suo cranio e quelli dolicocefali, per esempio la sporgenza occipitale dell’estremità inferiore e la base appiattita del cranio.
Quello di Hal Saflieni non è l’unica costruzione sotterranea di Malta: a Gozo ne è stata rinvenuta un altra a Xaghra, vicinissima al sito di Ggantija, che fa ipotizzare un curioso parallelismo con Hal Saflieni e Torxien, ma anche con Hagar Qim e Mnajdra. L’ipogeo, scoperto all’inizio del XIX secolo, fu poi dimenticato fino a cinquant’anni fa. Al suo interno furono rinvenuti migliaia di resti scheletrici frammentati, probabilmente perché utilizzato in seguito come sepolcro. Una camera sepolcrale, la più antica, potrebbe comunque risalire alla fine del V millennio a.C.
In quella fase terminale vanno inseriti Haġar Qim (“pietra del culto”) e Mnajdra, due siti archeologici distanti tra loro appena settecento metri, che si affacciano sulla costa meridionale, di fronte allo scoglio di Filfla. A Mnajdra, in realtà un complesso di tre templi accostati, gli ambienti interni erano separati tra loro per mezzo di una lastra addossata o appesa a una parete a scopo decorativo di grandi dimensioni, in cui si apriva il varco che permetteva il passaggio.
Se a Mnajdra è stato accertato un orientamento che permette, durante gli equinozi, il passaggio preciso della luce negli ambienti interni (tanto da farne un calendario di pietra), appare più difficoltoso individuare orientamenti precisi nelle altre località, anche se Giulio Magli si dice convinto, con Klaus Albrecht, che tale peculiarità sia evidenziata dall’ingresso rivolto a Sud-Est di quasi tutti i templi (tranne Tarxien e uno dei due di Mnajdra), certamente non casuale: studiando gli allineamenti degli altari emerge infatti che al solstizio d’inverno il Sole centra la mensa sacra sinistra di questi templi.
Tenendo conto anche del pensiero dell’archeologo David H.Trump, che si discosta non poco da queste conclusioni, spingersi oltre appare difficoltoso. Non nutriamo invece dubbi sulle capacità ingegneristiche della misteriosa civiltà di Malta, che per l’archeologo e antropologo John D. Evans “…dopo un lungo e ininterrotto sviluppo… improvvisamente scompare, senza lasciare tracce, almeno materiali, della cultura maltese dei secoli successivi… I costruttori di templi svaniscono come per magia e non se ne sa più nulla… Non vi è… un declino graduale, né una trasformazione della stessa, né la fusione di alcuni suoi elementi con quelli della cultura che la sostituisce. Nulla; all’apice della sua evoluzione, la cultura dei templi scompare, sprofondando come un sasso nel fiume del tempo… Niente tra il materiale storico posteriore sembra indicare la sopravvivenza di una parte, sia pure esigua, della popolazione originaria. Se una parte sopravvisse, non lasciò traccia di sé individuabile tra i monumenti del nuovo periodo. Ciò è molto insolito…” (“Segreti dell’antica Malta”, 1959).