Una caratteristica di molte civiltà del passato è legata alla deformazione cranica, la pratica dell’allungamento della parte posteriore della scatola cranica mediante tecniche di bendaggio con tavolette e legature fin dalla tenera età, che nell’antichità era in uso un po’ dappertutto: si credeva infatti che avere un cranio dolicocefalo facesse assomigliare alle divinità.
Probabilmente la pratica voleva essere un elemento distintivo per la classe regnante sacerdotale; la dolicocefalia doveva conferire un aspetto serpentiforme che deve almeno far riflettere sulle possibili connessioni tra questa, il culto della Madre Terra e il significato da attribuire alla simbologia del serpente.
Nonostante il suo aspetto riluttante, il rettile è da sempre simbolo di vita per la sua capacità di rinnovarsi cambiando pelle. Non per niente due serpenti attorcigliati al Caduceo, che raffigurano le opposte correnti dell’Universo, rappresentano ancora oggi la medicina.
Nell’antico Egitto, disposto attorno alla ruota solare alata in testa ai faraoni, il serpente era una forza creatrice e per certi versi così doveva intendersi anche nel Medioevo, in cui l’immagine di un serpente coronato che dà alla luce un neonato era sinonimo di rivelazione e iniziazione.
Il significato maggiormente attribuito nel corso della storia a questo rettile è senza dubbio quello della sapienza e della conoscenza: è una divinità primordiale, che ha a che fare con l’universo e che talvolta assume le sembianze di un drago marino.
L’elemento acquatico è sempre associato ai serpenti mitologici, che sono rappresentati in modi diversi: a spirale, nel segno dell’infinito, rigido, alato o rostrato.
Su almeno un centinaio di crani rinvenuti in Perù, è stata accertata anche la tecnica della trapanazione al cervello con lame d’ossidiana (un vetro vulcanico che si origina dal veloce raffreddamento di lave ricche di silice).
I tumi, coltelli con lama a mezzaluna e manico decorato a intarsio, in uso alle popolazioni precolombiane, venivano utilizzati anche per queste operazioni chirurgiche.
È stato suggerito che questi interventi chirurgici si rendevano necessari per alleggerire la pressione dopo un’emorragia, curare forme tumorali e generiche ferite alla testa.
Dall’analisi di questi crani è emerso che più della metà dei pazienti sottoposti a trapanazione guarirono e sopravvissero, come testimoniato da campioni diversi studiati da Tello e Quevedo, in cui sono evidenti le tracce di rimarginazione.
Thomas Dale Stewart, considerato il padre della moderna antropologia forense, studiando campioni scheletrici recuperati da scavi archeologici, suggerì che il primo esempio di trapanazione fosse da attribuire ai Paracas. Stewart disse che “…la percentuale di sopravvivenza a questi interventi chirurgici primitivi era sorprendentemente alta… gli studiosi hanno notato come nel 63% dei casi si riscontri uno stato di avanzata guarigione del cranio stesso.”
Una tecnica simile risalente al V millennio a.C. è stata riscontrata anche in Anatolia, nei siti di Asikli Hoyuk e Ikiztepe, come pure in sepolture neolitiche del VI e II millennio a.C. rinvenute in Francia.
Ad Asikli Hoyuk è stato ritrovato lo scheletro di una giovane donna che presenta tracce della prima trapanazione al cervello finora conosciuta: questo reperto è oggi custodito al Museo Archeologico di Aksaray.
Probabilmente si trattava di un intervento chirurgico, poiché è stato determinato che la tecnica fu utilizzata mentre la ragazza era ancora in vita: l’archeologo Andrea De Pascale scrive che “…si tratta di una trapanazione cranica, alla quale la paziente quasi certamente sopravvisse, come sembrano testimoniare i segni di guarigione presenti sui margini del foro, riconoscibili nella parziale ricrescita e cicatrizzazione del tessuto osseo.”
Un intervento eseguito con lame di ossidiana molto affilate a doppio filo, lunghe circa quattro centimetri, come quelle rinvenute nel 2010 nel sito di Ikiztepe, una località turca sul Mar Nero in cui l’archeologo Onder Bilgi scava da quasi quarant’anni. Lì si stabilì una piccola comunità fin dal 5.000 a.C. e non c’era pietra vulcanica per realizzare le lame: l’ossidiana dev’essere stata importata, come nel caso di Gobekli Tepe, da qualche altro centro della Cappadocia se non addirittura dalle parti del lontanissimo lago di Van.
Curioso che vicino a Ikiztepe siano stati rinvenuti settecento scheletri, una decina dei quali con fori rettangolari nel cranio riconducibili all’uso di lame d’ossidiana. L’analisi delle ossa ha rilevato, come nel caso della donna di Asikli Hoyuk, che i pazienti sottoposti a questi interventi chirurgici rimasero in vita anche per tre anni.
Tutto fa pensare che a Ikiztepe ci fosse un centro sanitario specializzato in questa forma di interventi per alleggerire la pressione dopo un’emorragia, curare forme tumorali e generiche ferite alla testa.
Anche Alain Beyneix, ricercatore del Dipartimento di Preistoria del Meseum National d’Histoire naturelle di Parigi, studiando le sepolture neolitiche tra il VI e il II millennio a.C. rinvenute in Francia, che presentano numerosi casi di trapanazione cranica, afferma che quel periodo “…vede la nascita di una forma precoce di medicina o almeno di un sapere medico avanzato… I praticanti non ignorano i gravi rischi d’emorragia in cui incorrono i pazienti in caso di rottura della arteria meningea media. Lo stesso vale per le lesioni del nervo facciale o del muscolo temporale che potevano provocare rispettivamente una paralisi facciale o una paralisi mandibolare. Come regola generale, le trapanazioni si situano raramente sulla sutura craniale e soprattutto sulla sutura sagittale che sembra essere stata accuratamente evitata… Le trapanazioni realizzate con successo implicano una conoscenza operativa condivisa e trasmessa di generazione in generazione su diversi secoli.”
La consuetudine di deformare il cranio è proseguita anche in tempi recenti, come dimostra il rinvenimento in Germania di una trentina di teschi con simili caratteristiche, risalenti al VI secolo d.C.: si trattava probabilmente di gente nomade proveniente dalle steppe asiatiche.