Il vaso di Dorchester comincia a far parlare di sé il 7 giugno 1851 quando sulle pagine della prestigiosa rivista Scientific American fu pubblicato un breve articolo, dal titolo “Una reliquia di un’età scomparsa”, circa il rinvenimento l’anno prima di questo manufatto metallico proprio a Dorchester, una località del Massachusetts, durante lavori di sbancamento di una collina.
Ce ne occupiamo perché già da questo unico resoconto parrebbe che l’oggetto sia stato ritrovato in uno strato di pietra che i geologi datato a 320 milioni di anni fa: come vedremo, le incisioni sul vaso confermerebbero clamorosamente questa incredibile antichità mentre le circostanze del ritrovamento, sospette come molti altri oopart, farebbero propendere per la solita bufala ben congeniata.
Ecco quel che scriveva il magazine riprendendo la notizia già apparsa su The Boston Evening Transcript: “Alcuni giorni fa è stata prodotta una potente esplosione nella roccia della Meeting House Hill, nel quartiere di Dorchester, pochi isolati a sud della sala conferenze del Rev. Sig. Hall. L’esplosione ha prodotto un’immensa quantità di pietrame, alcuni pezzi del peso di alcune tonnellate, e ha scagliato frammenti più piccoli in tutte le direzioni. Tra questi è stato raccolto un vaso metallico separato in due pezzi, per la frattura provocata dall’esplosione. Le due parti riunite formano un vaso a forma di campana, alto 11,4 cm, largo 16,5 cm alla base e 6,3 cm in cima, e di circa tre millimetri di spessore. Il corpo di questo vaso assomiglia nel colore allo zinco, o ad una lega metallica in cui c’è una considerevole percentuale d’argento… Adesso è in possesso del Signor John Kettell. Il Dr. J. V. C. Smith, che ha recentemente viaggiato in Oriente, ed ha esaminato centinaia di curiosi utensili domestici, disegnandoli anche, non ha mai visto qualcosa che assomigli a questo. Egli ha fatto un disegno e preso accurate misure di questo, da sottoporre ad esame scientifico. Non c’è alcun dubbio che questa curiosità era saltata fuori dalla roccia, come sopra detto; ma vuole il Professor Agassiz, o qualche altro scienziato, dirci per favore come questo è arrivato lì? L’argomento è degno d’investigazione, perché in questo caso non vi è alcun inganno”. Nell’articolo, oltre a citare le incisioni presenti sul vaso (“…sei figure di un fiore, o un bouquet, splendidamente intarsiato nell’argento puro, e attorno alla parte bassa una pergola, o tralcio, intarsiata anch’essa nell’argento…”) si riferiva che il manufatto sarebbe stato interrato a una profondità di circa 5 metri, in un sedimento conglomerato che oggi sappiamo formatosi per i tipici processi che originano erosioni e smottamenti. Stando all’indagine stratigrafica del suolo pubblicata nel 1964 dal Journal of the Boston Society of Civil Engineers, il sedimento in parola, denominato Roxbury, si è formato tra il periodo Devoniano superiore e il Permiano, all’incirca 300 milioni di anni fa.
Un’erbacea estinta L’incessante attività tettonica del Permiano stravolse la massa continentale Pangea e secondo la teoria della deriva dei continenti condusse infine alla nascita di due supercontinenti, Gondwana e Laurasia. È quindi indubbio che la storia evolutiva del continente americano sia similare a quella dell’Europa. In corrispondenza di queste ere geologiche, caratterizzate da notevoli cambiamenti climatici con l’intercalare di periodi glaciali e interglaciali, avvenne la più importante estinzione di massa che, come quella dei dinosauri nel Cretaceo, potrebbe essere dovuta all’impatto di un asteroide con il nostro pianeta. Alla fine del Corbonifero Superiore, 280 milioni di anni fa, si estinse anche la Sphenophyllum laurae, un’erbacea pteridofite di appena 30 centimetri con foglie di 1,5 centimetri, strette alla base del sottile fusto ma allargate verso l’estremità.
Ebbene, le incisioni presenti sul vaso di Dorchester riproducono realisticamente proprio questa pianta, estinta nello stesso periodo attribuito al sedimento in cui il manufatto sarebbe stato rinvenuto. I fossili di quelle piante, all’epoca del ritrovamento del vaso, non erano ancora censiti. I primi trattati sulla flora del Carbonifero risalgono alla fine del XVIII secolo, in seguito al rinvenimento dei primi reperti fossili nei giacimenti di carbone in Nord America e in Europa, ma le immagini contenute in queste pubblicazioni erano assai scarne. Solo tra il 1964 e il 1975 con l’incompleto (ne uscirono solo 4 volumi anziché 9 previsti) ma monumentale Traité de Paléobotanique a cura di Edouard Boureau si avrà un panorama completo sull’argomento: in quelle pagine, ove sono citate le prime pubblicazioni scientifiche riferite alla famiglia delle Sphenophyllum, dobbiamo necessariamente strabuzzare gli occhi quando leggiamo che del tipo laurae, quello a 4 foglie effigiato sul nostro vaso, se ne scrisse, descrivendola, solo a partire dal 1953.
Ma anche se fosse la Sphenophyllum kidstoni (a 6 foglie, come riferito negli articoli citati) dobbiamo constatare che se ne scrisse a partire dal 1931. Pur ammettendo somiglianze anatomiche in questa particolare specie vegetale, occorre aggiungere che anche le altre incisioni presenti sul vaso, dei ramoscelli con piccole foglie, sono riconducibili alla Sphenopteris goldenbergi, una pianta anch’essa estinta nel Carbonifico Superiore, di cui si pubblicò l’immagine di un fossile rinvenuto in Westfalia solamente nel 1869. Insomma, ne viene fuori un quadro che confermerebbe in maniera inequivocabile la bontà del reperto.
Un candelabro del XIX secolo? Non possiamo sottacere le controverse circostanze del rinvenimento, un cantiere edile e non uno scavo archeologico. Come sempre soffriamo della mancanza di documentazione e testimonianze attendibili (non potendo fare pieno affidamento sulla cronaca di un paio di giornali) e di un’unica fotografia (non sappiamo nemmeno chi ne sia l’autore), peraltro non inserita a corredo dell’articolo ma apparsa solo recentemente. Questa immagine, fra l’altro, non mostra nemmeno la presunta frattura in due parti prodotta dall’esplosione. Ma quel che manca clamorosamente è proprio il vaso, svanito nel nulla. C’è chi sostiene sia stato volutamente tolto dalla circolazione per non incrinare le convinzioni imperanti (300 milioni di anni fa non c’era nessun uomo in giro capace di realizzare una simile opera); altri, più ragionevoli, asseriscono si trattasse di una truffa ben congeniata che col tempo sarebbe stata scoperta, quindi occorreva sottrarre il vaso a chi avrebbe potuto eseguire un’analisi scientifica. In mancanza di questi riscontri, non possiamo nemmeno essere certi che il vaso fosse stato realizzato, come sostengono alcuni, in una lega di zinco e argento. In ogni modo, qualche ipotesi si può fare.
Negli anni del rinvenimento del vaso, il piccolo centro rurale di Dorchester, fondato nel XVII secolo da coloni puritani provenienti dalla contea inglese di Dorset, divenne un quartiere di Boston e nel giro di qualche decennio fu protagonista di una vertiginosa crescita industriale, grazie anche alla linea ferroviaria Boston-Plymouth che già dal 1845 attraversava la località. Ancora oggi la maggior parte degli abitanti di questo quartiere può vantare un’origine europea. Il manufatto, a forma di campana, può far pensare anche a un candelabro in classico stile Vittoriano realizzato in quegli anni. Questo stile, che effettivamente univa al Rococò motivi floreali, prese piede con l’ascesa al trono d’Inghilterra della regina Vittoria, nella prima metà del XIX secolo. A quel periodo risale anche il brevetto per l’argentatura galvanica, tecnica che permetteva una produzione a costi ridotti rispetto all’argento e al Silverplate. Tra i tanti prodotti d’argenteria dell’epoca vi erano anche bugie con porta candela a campanella. La produzione di argenteria si affermò rapidamente anche in America settentrionale perché qui, a differenza di quel che accadeva in Inghilterra, non era in vigore il dazio sugli argenti.
Considerando lo stile del vaso (o del candeliere a forma di campana), il probabile utilizzo dell’argento e le intense relazioni commerciali tra l’Inghilterra e il Nord America, potremmo anche attribuirne la realizzazione ad abili argentieri del 1800, ipotesi a questo punto molto più sostenibile di altre. Senza dimenticare che un poggiapipa indiano sorprendentemente simile al manufatto di Dorchester era conservato al Chhatrapati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya, un museo di Mumbai (si veda in proposito il volume di K. Bharatha Iyer “Arte indiana”, Mondadori, 1964).
Il vaso di Dorchester, come altri oggetti fuori posto, rimane confinato in una zona d’ombra e ci lascia l’amaro in bocca perché l’articolo di stampa citato faceva riferimento anche a un fantomatico prof. Agassiz (“…Quanto sopra proviene dal Transcript di Boston e quello che ci stupisce è come il Transcript può supporre il Prof. Agassiz qualificato a dirci come questo sia giunto lì più di John Doyle, il fabbro ferraio. Non si tratta di una questione di zoologia, botanica o geologia, ma una questione relativa ad un antico vaso metallico, forse fatto da Tuba-Cain, il primo abitante di Dorchester”); la curiosità ci ha mosso per una mirata ricerca che ha permesso di identificarlo in Jean Louis Rodolphe Agassiz (1807-1873), biologo, zoologo e paleontologo svizzero che nel 1837, per primo, sostenne scientificamente l’ipotesi che sul nostro pianeta in passato fosse intercorsa almeno un’era glaciale. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1846 (pochi anni prima della scoperta del “vaso”), tenne conferenze di zoologia proprio a Boston e divenne docente di zoologia e geologia ad Harvard. Dal 1848 al 1854 si dedicò alla stesura della “Bibliographia Zoologiae et Geologiae” in 4 volumi, un’opera che raggruppava documenti e trattati di zoologia e geologia in circolazione. Di fronte a un uomo di tale levatura possiamo ancora sentirci dei sognatori poiché non possiamo credere che abbia preso un abbaglio simile.